Giornalismo sotto attacco in Italia

Guido Piovene “inviato speciale” alla Marcia Perugia-Assisi del 1961

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Oggi 12 ottobre, a 80 anni dalla costituzione dell’Onu, a 10 anni dalla diffusione della Laudato sì di Papa Francesco, a 800 anni dalla composizione del Cantico delle Creature di San Francesco e a 64 anni dalla prima Marcia Perugia Assisi del 1961, si svolge un’edizione straordinaria della Marcia Perugia Assisi della pace e della fraternità.

Nel manifesto di convocazione leggiamo un richiamo esplicito ai valori fondativi dell’ONU:

Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra (…) a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole, a promuovere il progresso sociale e un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà, e per tali fini, abbiamo risoluto riunire i nostri sforzi. (Carta delle Nazioni Unite, 1945)

Impossibile non riandare con la memoria a quell’ormai lontano 24 settembre 1961 quando, promossa e voluta fortemente da Aldo Capitini, si tenne per la prima volta la Marcia per la Pace e la Fratellanza dei popoli, lungo un percorso divenuto poi classico dai Giardini del Frontone di Perugia alla Rocca di Assisi.

Un filosofo perugino, sostenitore del metodo gandhiano della nonviolenza, privo di risorse economiche, politicamente non schierato, riuscì a far breccia su migliaia di persone animate di “buona volontà” e da una autentica aspirazione alla pace. Erano trascorsi solo quindici anni dalla caduta del fascismo ed era ancora viva la tensione a superare il pesante fardello del passato e dell’ideologia bellicista che lo aveva generato e sorretto.

Fu un evento che segnò un punto di svolta importante nella storia del pacifismo italiano: migliaia di persone che camminano fianco a fianco, senza distinzione di età o di ceto sociale, tutte persuase della necessità di mettere al bando le armi e animate da un forte desiderio di pace.

È stata una marcia laica, che prese forma fuori dai partiti politici, perché intenzionalmente al di sopra della logica manichea che aveva condotto alla guerra fredda, alla contrapposizione tra due blocchi, allo schieramento ideologico. Un evento che ha segnato un punto di non ritorno, diventando una lucida testimonianza di un processo di maturazione civile dell’opinione pubblica italiana. La gente che si è messa in marcia lungo le strade dell’Umbria, in quella domenica del 24 settembre 1961, stava imboccando la strada della democrazia e della pace.

Tra i partecipanti alla marcia c’era anche un giornalista e scrittore vicentino che con i suoi scritti si sforzava di «illustrare il proprio tempo», mettendosi nel mondo e facendosene interprete. E nel dar conto, da testimone oculare, di quell’evento quasi magico Guido Piovene ne percepisce la profonda novità e il sentire empatico che guida i passi di quei trentamila marciatori che invocano a gran voce la pace tra i popoli.

Vorrei proporre qui ampi stralci di un articolo poco noto di Guido Piovene, pubblicato su «La Stampa» del 27 settembre 1961, che è un reportage di quella prima Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli. È un reportage che si configura come una testimonianza in presa diretta di uno che a quella marcia ha partecipato ed ha anche preso la parola alla Rocca di Assisi, assieme a Arturo Carlo Jemolo, Renato Guttuso, Ernesto Rossi, Walter Binni e altri.

Piovene esordisce così:

Ho partecipato anch’io alla marcia della pace, promossa da Aldo Capitini, e svoltasi domenica scorsa da Perugia ad Assisi. Credo che bisogna parlarne, perché è stata la prima manifestazione del genere provocata in Italia dalla presente crisi internazionale.

Non posso dissociare, ricordandola due giorni dopo, il suo significato dalla straordinaria grazia dell’ambiente naturale e umano: il lago Trasimeno costeggiato la mattina presto, la Perugia domenicale con la popolazione riversata in corso Vannucci, tra il Duomo e la terrazza sovrastante il paesaggio, il lento passo del corteo con le sue scritte e i suoi stendardi per i ventiquattro chilometri del percorso fino ad Assisi […] E la qualità della folla; per me, lo ammetto, una sorpresa, una immagine nuova della folla italiana, gaia e composta, mai sbracata, senza eccesso, dotata della virtù signorile che si chiama tatto, sempre nel tono giusto, nella giusta misura. Anche la polizia, che era intervenuta in buon numero, esaurì la sua opera nel regolare il traffico; non vi fu un gesto o una parola che poteva indurre a interventi diversi. Eppure il numero dei convenuti era grande. Ho letto alcune relazioni che tentano di svalutare la prima marcia della pace italiana negando questo fatto. Gli umbri predominavano, ma un centinaio di autopullman sovraccarichi erano giunti da tutte le parti d’Italia insieme a centinaia di macchine private. Come testimonio oculare sono certo che il numero di ventimila pecca soltanto per prudenza. Ventimila erano le persone sull’alto della Rocca, ad ascoltare gli oratori. […] Trentamila persone è la cifra totale più vicina alla verità. […]

Raramente ho sentito un consenso più intero tra gli oratori e il pubblico. Devo aggiungere che si trattava di un consenso di genere cordiale, amabile, senza nessuna forzatura. Niente di tribunizio, niente che assomigliasse al rapporto violento tra l’eloquenza del tribuno e la folla che lo subisce.

Era una folla antiretorica, cosciente di quello che voleva sentire e di ciò che approvava se rispondeva con l’applauso. Una folla, anche, diversamente composta, che andava dal puro e semplice pacifista, dal puro e semplice negatore della violenza, a quello che portava il desiderio della pace in un’idea politica ben definita. […]

Qui voglio osservare soltanto che questa marcia della pace ha avuto anche una spontaneità ed un calore che certo non attingono le manifestazioni semplicemente comandate. Essa faceva leva su un sentimento di tutti. Torto hanno solo coloro che ne restano assenti, e si credono autorizzati a contrapporre il loro sussiego maccheronico alle nostre paure e alle nostre speranze.

«Non guerra ma negoziati» era una delle scritte che ripetevano i cartelli. Noi tutti che teniamo corrispondenza con amici in America riceviamo da qualche tempo lettere che ci allarmano. «Purtroppo stiamo attraversando un periodo di isterismo, – leggo nell’ultima che mi è giunta, – per cui a parere di molti scrittori e giornalisti americani vi sono soltanto due possibilità: o la bomba atomica o vivere nell’ignominia». Ma in un giornale americano, il «New York Times», ho letto alcune righe che mi hanno fatto piacere. Esse dicono che ci si rende conto che la Gran Bretagna è scossa dalla propaganda dei pacifisti «quanto basta a suscitare dubbi negli ambienti ufficiali di Washington». Ecco dunque il significato di queste marce della pace; ecco la dimostrazione che servono a qualche cosa; a far conoscere cioè la vera situazione della nostra opinione pubblica a chi può essere ingannato da un’opinione pubblica differente. […]

E se oggi v’è un paese prevalentemente pacifista, questo paese è il nostro. E vi comprendo quelli che scriveranno contro queste mie righe affrettate le loro solite insulsaggini; nessuno dei quali però, ne sono certo, è disposto a fare la guerra e, per le attuali ragioni, al sacrificio di se stesso.

È una pagina che non ha bisogno di commenti ma che lascia trasparire tutta la sua lucida attualità. Per questo la riproponiamo qui e la doniamo come viatico ai marciatori di oggi, che saranno sicuramente molto, molto più numerosi dei trentamila di sessantaquattro anni fa.

 


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