Giornalismo sotto attacco in Italia

Un mondo armato fino ai denti

0 0
Ogni giorno scorrono davanti ai nostri occhi immagini di violenza e di sofferenza. Non più eventi eccezionali, ma una costante del paesaggio mediatico e politico in cui viviamo. Guerre che divorano città intere, bombardamenti in diretta, corpi senza vita stesi sulle strade, stragi nelle scuole americane raccontate quasi come cronaca di routine, omicidi che diventano virali nel tempo di un clic. È un reality globale del dolore, una sequenza infinita di fotogrammi che ci arrivano da ogni latitudine e che finiscono per confondersi, per appiattirsi, fino a perdere la loro capacità di indignarci. La tragedia quotidiana si consuma davanti a noi senza più scandalizzarci, perché ci stiamo abituando. Eppure in questa costellazione di massacri, il filo conduttore è limpido: la diffusione delle armi, la trasformazione della violenza in linguaggio universale, la guerra come condizione permanente.
L’omicidio di Charlie Kirk, ucciso con un colpo d’arma da fuoco al collo, è solo l’ultimo tassello di questa spirale di violenza. Fondatore di Turning Point USA, simbolo di un conservatorismo radicale e difensore acceso del diritto illimitato al possesso di armi, Kirk è caduto proprio vittima di quello strumento che aveva sempre celebrato. Un paradosso crudele, che non ha fermato la macchina della propaganda. Donald Trump non ha esitato ad accusare la sinistra e la sua “retorica” di aver armato la mano dell’assassino, Elon Musk ha rincarato parlando di “partito della morte”. Non un istante di silenzio, non una riflessione sul paradosso tragico di una società satura di armi: solo il bisogno immediato di trasformare un lutto in un’arma politica, di usare il sangue per alimentare lo scontro. Ed è qui che il discorso si allarga. Perché Kirk non è un’eccezione, è un sintomo. Viviamo in un mondo che si comporta come un contenitore colmo di armi, stipato fino all’orlo, pronto a traboccare. Pistole, fucili, carri armati, missili: la produzione non si ferma mai, la distribuzione non conosce confini, la logica del mercato non prevede pause. Ogni volta che un’arma esplode, altre vengono vendute; ogni volta che un corpo cade, qualcun altro incassa. È un meccanismo perverso eppure perfettamente razionale per chi lo governa: i signori delle armi e della guerra sono gli unici vincitori in ogni conflitto. Non importa chi muore, importa che la spirale continui, perché la spirale genera fatturato.
Il motto latino “si vis pacem, para bellum” è stato travolto dalla sua stessa degenerazione. Non si prepara più la pace accumulando armi, si produce guerra accumulando profitti. Ogni attentato diventa un’occasione per nuove commesse, ogni conflitto rinnova contratti miliardari, ogni massacro giustifica altre forniture. È un ingranaggio che non si ferma mai, che ha bisogno di sangue per funzionare. A ogni ciclo di violenza corrisponde un ciclo di guadagni: e così la pace diventa un miraggio, la guerra diventa la normalità, la violenza diventa lo sfondo naturale della politica. Le immagini che consumiamo quotidianamente sono parte integrante di questo meccanismo. La pornografia della violenza scorre sugli schermi: bombardamenti raccontati come se fossero trailer, esecuzioni diffuse come se fossero videoclip, fotografie di cadaveri ridotte a meme. La morte si fa spettacolo, il dolore diventa contenuto. Ciò che dovrebbe fermare il respiro viene invece divorato in pochi secondi di attenzione, condiviso, commentato, dimenticato. E intanto la sensibilità collettiva si erode: ci abituiamo alla crudeltà come ci si abitua al rumore del traffico. L’orrore diventa rumore di fondo.
La politica cavalca questo processo invece di contrastarlo. Ogni tragedia diventa occasione di schieramento. Non importa capire, importa scegliere da che parte stare. È la logica delle tifoserie, delle curve contrapposte, che dal web si riversano nelle piazze e nelle urne. Le destre e le estreme destre hanno fatto di questa polarizzazione il loro strumento principale: più lo scontro è radicale, più l’identità si compatta, più il consenso si consolida. Non servono analisi, basta un nemico da demonizzare. Non servono soluzioni, basta un avversario da additare. È così che il dolore diventa carburante politico e che la violenza diventa linguaggio della democrazia. Ma una democrazia che parla la lingua della violenza non è più democrazia: è un’arena in cui si confrontano tifoserie della morte. Ed è questo lo spettacolo a cui assistiamo oggi: curve contrapposte che applaudono, che urlano, che si nutrono di tragedie come se fossero gol. È una degradazione della politica che non nasce dal basso ma dall’alto: dai governi che investono miliardi in armamenti, dai leader che difendono lobby potenti, dai partiti che costruiscono campagne sul rancore. Negli Stati Uniti la NRA detta legge da decenni, protetta da un Partito Repubblicano che difende il possesso illimitato di armi anche davanti a stragi di bambini. In Europa e in Italia le spese militari aumentano, le commesse belliche si moltiplicano, il linguaggio di guerra penetra nelle istituzioni. La violenza è trattata come linguaggio naturale del potere, e chi prova a opporsi viene accusato di ingenuità. Ma la guerra non è normale, non è fisiologica, non è destino. È la più grande disgrazia dell’umanità. La memoria antifascista ce lo aveva insegnato: la violenza come strumento politico porta alla catastrofe. Oggi quel monito è dimenticato, travolto da una narrazione che presenta ogni arsenale come necessario, ogni conflitto come inevitabile. Non basta un pacifismo di maniera, non basta evocare la pace come slogan. Serve un rifiuto radicale, netto, senza compromessi. Gino Strada lo diceva con parole limpide: “Non sono pacifista. Sono contro la guerra. È diverso. Essere pacifisti è una condizione, essere contro la guerra è un comportamento, un impegno, un’azione.” È questa la differenza che conta: non un atteggiamento passivo, ma una scelta attiva, una responsabilità. Se non spezziamo questo meccanismo, resteremo spettatori complici di un reality globale di sangue. Un reality in cui la violenza è il linguaggio, le armi sono la scenografia, i governi sono gli autori e i mercanti d’armi sono i soli veri vincitori. Ogni immagine di morte che scorre davanti ai nostri occhi non è solo la fotografia di una tragedia, è anche il riflesso di un ingranaggio che si autoalimenta. E finché non avremo il coraggio di interrompere questo ingranaggio, non ci sarà futuro da immaginare.

Iscriviti alla Newsletter di Articolo21

Articolo21
Panoramica privacy

Questo sito Web utilizza i cookie in modo che possiamo fornirti la migliore esperienza utente possibile. Le informazioni sui cookie sono memorizzate nel tuo browser ed eseguono funzioni come riconoscerti quando ritorni sul nostro sito Web e aiutare il nostro team a capire quali sezioni del sito Web trovi più interessanti e utili.

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.