La sera del 25 settembre scorso, al Cinema Giulio Cesare di Roma, nell’ambito della manifestazione Venezia a Roma, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha presentato The voice of Hind Rajab, della regista tunisina Kaouther ben Hania (della quale ricordiamo soltanto l’imperdibile Quattro figlie, del 2023). Il film ha Vinto il Leone d’Argento a Venezia e i Premi di Unicef e della Croce Rossa.
Riportiamo qui le dichiarazioni che Noury ha voluto rilasciarci all’indomani della proiezione in sala, accompagnate da qualche piccola riflessione. Abbiamo visto un film di fronte al quale vorremmo scegliere di non aggiungere nulla, se non la conferma del dolore, personale e collettivo, di fronte a questo disastro umanitario, tra i tanti nel mondo, ma più insopportabile, perché perpetrato da un cieco, immemore sionismo che offende il popolo ebraico nel mondo e tutti noi. Vorremmo essere lucidi, come il direttore della Mezzaluna Rossa del film (e della realtà), ma come si fa a trattenere vergogna e disperazione, ascoltando le poche parole di una bambina che chiede soltanto di essere salvata dalla violenza, a dir poco stolida, dei carri armati israeliani, a Gaza? Quelle implorazioni vorremmo rimanessero per sempre nella memoria di tutti e, allo stesso tempo, vorremmo non averle sentite, né ora né mai, da da nessuno.
Il film è la ricostruzione cinematografica di uno tra gli infiniti giorni di tragedia vissuti dal popolo palestinese da troppi decenni e che, negli ultimi due anni, sono diventati definitivi, fino a prova contraria senza scampo: giorni di genocidio. Il 29 gennaio 2024, i volontari della Mezzaluna Rossa ricevono una chiamata di emergenza, tra le tante. Una bambina di sei anni è intrappolata in un’auto sotto attacco a Gaza, accanto ai corpi morti degli zii e della cugina, crivellati di colpi inferti da un carro armato israeliano. Mentre cercano di tenerla viva e vigile, al telefono, gli operatori della Mezzaluna rossa fanno tutto il possibile per farle arrivare un’ambulanza, che trova ostacoli assurdi da sopportare per tutto il giorno. L’ambulanza, ormai di notte, nei pressi della macchina, viene fatta esplodere. La bambina muore assieme all’autista che era quasi arrivato a salvarla. Il suo nome era Hind Rajab
Di seguito, le dichiarazioni di Riccardo Noury.
D. Come va guardato questo film, dal suo punto di vista e che cosa sta succedendo nel mondo?
R. The voice of Hind Rajab va guardato con solidarietà, con passione e, naturalmente, con quella rabbia che ciascuno spettatore porta in sé uscendo dalla sala cinematografica. Questa rabbia deve trasformarsi, però, in azione non violenta, di protesta, come quella che è in corso per le strade e per mare. Bisogna compiere azioni concrete di solidarietà verso la popolazione della Striscia di Gaza occupata. Questo film rilancia non soltanto la richiesta di soccorsi da parte della bambina Hind Rajab. Ma è una richiesta di aiuto al mondo intero. È come se quella bambina chiedesse a tutti di fare qualcosa per ciò che le sta succedendo, a lei come a tutto il popolo palestinese. La società civile, il mondo del cinema, dell’arte, in parte il mondo del giornalismo, questa richiesta l’hanno accolta. Manca però l’attore principale: la Politica intesa, intesa come Politica globale dei leader più influenti, di organizzazioni come l’Unione Europea, del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dei singoli Stati, tra i quali anche l’Italia. Tutta questa Politica ha iniziato a sussurrare qualcosa, attorno al 23esimo mese di questo genocidio. E viene da chiedersi cosa sarebbe cambiato se avesse iniziato a parlare due anni fa.
D. Prima della proiezione del film al Cinema Giulio Cesare, lei ha detto parole molto importanti sulla definitiva, costante violazione del Diritto Internazionale. Può spiegarci meglio questa cosa?
R. Nella Striscia di Gaza occupata ci troviamo di fronte a un genocidio. Questa non è una valutazione storica, o accademica, non è, tantomeno, una chiacchiera televisiva. È frutto di una ricerca che Amnesty International, seguita dalle stesse ONG israeliane, ha condotto sulla base della Convenzione del 1948 sul genocidio. Il fatto che ancora si debba parlare di genocidio, di crimini di guerra, di crimini contro l’umanità, è il segnale che quel sistema di protezione internazionale dei diritti umani nato dopo la seconda guerra mondiale, (le Nazioni Unite), sta collassando. Bisogna individuarne le responsabilità, altrimenti non vi si può porre rimedio. Le responsabilità stanno nella doppiezza della Comunità internazionale, attraverso i suoi più autorevoli e potenti rappresentanti. Questa doppiezza ha, come conseguenza, che non si guarda più al tipo di crimine che è stato commesso, ma a chi lo ha commesso. E, a seconda dei casi, questo atteggiamento porta a condannare, o a perdonare i criminali. Ora, abbiamo di fronte uno scenario apocalittico, per la popolazione della Striscia di Gaza e per come, le persone che sopravviveranno a questo genocidio, otterranno giustizia. Perché, in questo contesto globale, ogni parola seguita dall’aggettivo “internazionale” viene delegittimata. Queste parole sono: protezione. solidarietà, cooperazione e, aggiungiamo la più importante, giustizia. La Giustizia internazionale oggi è presa a schiaffi ovunque: da Trump, da Orban, non ultimo da tre governi africani che ieri si sono ritirati dalla Corte Penale Internazionale (ndr. Burkina Faso, Mali e Niger). Quando sentiamo dire, poi, dai leader dei governi europei che gli Accordi di Pace devono essere fatti senza l’interferenza della Giustizia, è come dire che lo slogan ispiratore della nascita della Giustizia internazionale, “Non c’è pace senza giustizia”, oggi sia amputato, nella sua prima parola: NON. Ossia si dice: “C’è pace senza giustizia”. Ci provassero, i leader che affermano possa esistere pace senza giustizia a riferire questa frase ai civili ucraini o ai civili palestinesi. Ecco, vorrei sapere la risposta che otterrebbero coloro i quali si permettono di dire che la giustizia è un’intrusa negli accordi di pace. Vorremmo sapere cosa risponderebbero quei civili, quelli che ancora non sono morti.
Qui si conclude la densa e precisa conversazione con Riccardo Noury.
La visione di questo film (come di altri, ma vorremmo non fare un elenco che resterebbe comunque incompleto) e le parole di Amnesty International, nella persona di Noury, sono del tutto autosufficienti. Non hanno bisogno di commenti, di interpretazioni, di dibattito. Perché sono fatti e i fatti, nel momento in cui si svolgono, vanno presi come tali e affrontati e risolti. La Storia conterà i morti, dei quali abbiamo cifre sempre inferiori alla realtà, e darà interpretazioni. Ora bisogna interrompere il genocidio in Palestina. Ora, la realtà è questa, incontrovertibile nelle infinite immagini dalle quali siamo sommersi, dal numero ogni giorno crescente delle vittime, dalle parole dei Hind Rajab che possiamo solo ascoltare, parole sussurrate e soffocate da un’angoscia di morte che, va da sé, nessun bambino, così come nessun essere umano, dovrebbe conoscere.
Il film è, a nostro avviso, vero “cinema del reale”. In The voice of Hind Rajab coesistono perfettamente le tre unità dettate da Aristotele attorno al 330 a. C. nella sua Poetica: unità di tempo, di luogo, di azione; c’è, con una evidenza implacabile, la capacità d’immedesimazione che soltanto il cinema del reale sa e può dare; c’è la ricostruzione delle voci autentiche della bambina e degli operatori della Mezzaluna Rossa, che si mescolano a quelle degli interpreti del film; c’è l’intrusione dei mezzi di comunicazione di massa più reali che si siano mai visti nella storia dell’umanità, i social media; c’è l’utilizzo del materiale di repertorio. Non è sindacabile, qui, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. La regista Kaouther ben Hania, infatti, scrive nelle sue note di regia: “Durante uno scalo all’aeroporto di Los Angeles, ho sentito una registrazione audio di Hind Rajab che implorava aiuto. A quel punto la sua voce si era già diffusa su Internet. Ho subito provato un misto di impotenza e di sconvolgente tristezza. Una reazione fisica, come se la terra mi fosse mancata sotto i piedi. Ho contattato la Mezzaluna Rossa e ho chiesto loro l’audio completo. Dopo averlo ascoltato, ho capito che non c’erano più dubbi e che dovevo fare questo film”.
E ancora una cosa: riguardo al dibattito sull’utilizzo (“strumentale” lo si definito) delle voci reali come forma di “ricatto” morale e di violenza psicologica verso lo spettatore innocente, Kaouther ben Hania aggiunge: “Le immagini violente sono ovunque sui nostri schermi, sulle nostre timeline, sui nostri telefoni. Volevo concentrarmi sull’invisibile: l’attesa, la paura, il suono insopportabile del silenzio quando l’aiuto non arriva. A volte ciò che non vedi è più devastante di ciò che vedi. Non posso accettare un mondo in cui un bambino chiede aiuto e nessuno arriva. Quel dolore, quel fallimento, appartengono a tutti noi. Questa storia non riguarda solo Gaza. Parla di un dolore universale. E credo che l’invenzione narrativa (soprattutto quando trae spunto da eventi verificati, dolorosi e reali) sia lo strumento più potente del cinema. Il cinema può preservare un ricordo. Il cinema può resistere all’amnesia. Che la voce di Hind Rajab possa essere ascoltata”.
Atteniamoci alle parole di chi ha voluto fare questo film, dunque, così come ai fatti. Qualora, tanto le spiegazioni della regista quanto i fatti, non volessero essere guardati in faccia, lo si decida liberamente, ma senza sovra interpretare quanto è nella realtà. A noi appare poco dignitoso, poco rispettoso.
Per concludere, questo film ha vinto il Leone d’Argento, ma questo Leone non ha avuto il coraggio di ruggire. Così potremmo riassumere quello che è accaduto a Venezia, durante l’82esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema. Sala Grande del Palazzo del Cinema, regista, cast e produttori in sala, commozione infinita, bandiere della Palestina a sventolare, 24 minuti di applausi (nessuno, in quella sala, durante la rassegna internazionale, aveva mai ricevuto tanto riconoscimento sincero, misto a indignazione). Eppure, il film che, a nostro avviso, si rivela il più necessario dell’intera Mostra, non ha vinto. Ed è stata una grande occasione persa di prendere una posizione chiara, precisa, giusta laddove i fatti e la Storia chiedono di prendere posizione, anche all’arte.
In fin dei conti, pensiamo che chiunque abbia fatto di The voice of Hind Rajab un motivo di confronto intellettuale, estetico, etico sul mezzo cinema e sull’utilizzo strumentale delle voci reali, così come chiunque voglia disquisire se meritasse o meno il Leone d’Oro, adesso, quest’anno, durante un genocidio, chiunque insomma, abbia da spendere parole inutili su questo film, ha perso e perde tempo (anche questo articolo, sia chiaro).
