C’è un’Italia che non si accorge nemmeno più dei propri fantasmi. Non perché siano spariti, ma perché li ha accolti come parte del paesaggio: dettagli pittoreschi, incidenti tecnici, folklore da archiviare. A Benevento, alla Rocca dei Rettori, durante un evento Coldiretti, tra un discorso istituzionale e l’intrattenimento, è partita “Faccetta nera”. Una canzone che non è soltanto un inno del regime, ma il simbolo della guerra coloniale, della retorica razzista che accompagnò la conquista d’Etiopia, delle promesse di schiave africane alle camicie nere. In un Paese che avesse fatto davvero i conti con il proprio passato, un episodio simile avrebbe scatenato una condanna immediata, severa, senza attenuanti. In Italia invece no: arriva la nota di dissociazione, la spiegazione tecnica della playlist, la formula burocratica “non rispecchia i nostri valori”. La scena è liquidata in poche ore. Ma è proprio questo meccanismo che racconta meglio di qualsiasi analisi il declino della coscienza democratica. Perché non è la prima volta che accade. La storia repubblicana è disseminata di episodi simili: cortei di nostalgici che sfilano a Predappio con saluti romani, vie ancora dedicate ai gerarchi, manifestazioni pubbliche in cui i simboli del fascismo riemergono senza conseguenze. Ogni volta la dinamica è identica: scandalo momentaneo, indignazione di circostanza, dissociazione tardiva, poi il silenzio. Tutto si dissolve nell’impunità, e ciò che dovrebbe restare intollerabile diventa routine. Così il fascismo non torna con la brutalità delle squadracce, ma con la leggerezza della svista. Non come minaccia esplicita, ma come normalizzazione. Non come ideologia da imporre, ma come sottofondo che si ripete e si banalizza.
Il cuore della questione è la rimozione del nostro passato coloniale. L’Italia non ha mai fatto davvero i conti con l’impero d’Africa, con i massacri in Etiopia, con le camere a gas utilizzate in Libia, con le deportazioni, con le violenze sistematiche che hanno accompagnato la conquista. Abbiamo preferito raccontarci la favola delle bonifiche, dei treni puntuali, della modernizzazione. Abbiamo trasformato la guerra coloniale in un episodio marginale, dimenticando che senza quella propaganda non si spiega la potenza del consenso al regime. “Faccetta nera” non è una canzone qualsiasi: è il manifesto sonoro di quel mito, il ritornello che prometteva alle truppe italiane la disponibilità dei corpi delle donne africane, l’inno che trasformava la violenza coloniale in festa patriottica. Il fatto che oggi possa risuonare in un contesto istituzionale e venire liquidata come incidente dimostra quanto poco resti della coscienza antifascista nelle nostre istituzioni.
Il problema non è un brano partito per sbaglio, ma una società che non riconosce più l’abisso che quelle note evocano. Se la memoria è ridotta a cerimonia, se la Costituzione è un testo che si cita senza comprenderne la sostanza, se l’antifascismo è confinato alle commemorazioni annuali, allora il terreno è già fertile per la nostalgia. E infatti lo vediamo: la retorica coloniale è tornata persino nei discorsi di governo, la parola “razza” ricompare nelle dichiarazioni pubbliche, il mito dell’ordine e dell’autorità riaffiora come se fosse un’alternativa credibile. L’episodio di Benevento non è una svista isolata, ma un tassello di un processo lungo, nel quale il passato non elaborato torna a galla ogni volta che si abbassa la vigilanza. Quando “Faccetta nera” irrompe in un evento istituzionale e la reazione si limita a un comunicato di scuse, significa che la Repubblica abdica al suo compito fondamentale: impedire la riabilitazione culturale del fascismo. Non basta dire che non ci rappresenta: bisogna impedire che accada, bisogna educare, bisogna ricordare senza sconti. Archiviare tutto come un malinteso significa legittimare. Ed è proprio questa la cifra dell’Italia di oggi: non la marcia trionfale dei nostalgici, ma la lenta corrosione della memoria, l’indifferenza che trasforma l’orrore in folklore. È così che la democrazia si consuma: non con un colpo di Stato, ma con la progressiva accettazione del suo contrario.
