L’hanno già fatto. Hanno preso un omicidio, l’hanno messo nel tritacarne dei social e ne è uscita la solita etichetta da appiccicare al nemico. In Utah, durante un evento universitario, il militante conservatore Charlie Kirk è stato ucciso con un colpo di fucile. L’FBI guida la caccia all’assassino, l’arma è stata recuperata, il movente ancora non c’è. Questo è il fatto, nudo e crudo. Negli Stati Uniti il presidente Donald Trump ha trasformato in poche ore il cordoglio in campagna, indicando nella “sinistra radicale” la matrice dell’omicidio e annunciando perfino una Medaglia della Libertà postuma per Kirk. Non un nome, non una prova sul movente, solo un avversario da colpire. Nel frattempo, come spesso accade, spunta un dettaglio velenoso, un’ipotesi fatta circolare ad arte. L’arma del killer avrebbe proiettili incisi con messaggi antifascisti e pro-trans. Le autorità non confermano, ma la macchina comunicativa è già partita. Un sospetto basta, un’indiscrezione diventa certezza e la narrazione si scolpisce da sé: la colpa è della sinistra, la colpa è degli antifascisti. In Italia la staffetta è stata immediata. Sui social circola la foto di Kirk a testa in giù, postata da un collettivo studentesco. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni la rilancia per attaccare i “sedicenti antifascisti” e promettere che “non ci faremo intimidire”. Così un singolo post di pessimo gusto diventa l’occasione per screditare l’antifascismo in blocco. Il passaggio è sempre lo stesso. Dal fatto alla cornice, dal dolore alla propaganda. E mentre negli Stati Uniti Elon Musk grida che “è ora di combattere”, in Italia il premier si appropria della tragedia per definire chi sono i nemici interni. Il meccanismo è semplice e micidiale. Lo shock dell’evento reale viene subito incorniciato indicando un responsabile collettivo. Il dettaglio non verificato, gonfiato dai media amici, diventa prova assoluta. Il rimbalzo sui social moltiplica, e chi prova a dissentire viene etichettato come complice morale. È propaganda allo stato puro, che funziona perché sposta il bersaglio. Dalla condanna della violenza alla criminalizzazione di un’identità politica. Ma l’antifascismo non è un’opinione, non è un “valore” generico come tanti altri. È un fondamento costituzionale, la clausola di salvaguardia della nostra democrazia, scritta nella carne viva della Resistenza e nelle disposizioni transitorie della Carta. Ridurlo a tribù da bullizzare, o peggio a matrice delittuosa, significa abbassare l’argine che ci protegge dal ritorno dell’autoritarismo. È qui che la vicenda assume una gravità ancora maggiore. Che un presidente degli Stati Uniti trasformi un omicidio in campagna elettorale può persino non stupire più, in un Paese logorato da anni di polarizzazione estrema. Ma che in Italia il capo del governo usi il proprio megafono istituzionale per equiparare un post di un collettivo studentesco a un intero universo politico e civile significa legittimare l’idea che antifascista equivalga a pericoloso. Significa normalizzare un terreno di caccia. Non è “guerra alla sinistra”. È guerra all’antifascismo. E questa guerra è globale. Dal pulpito di Trump alla bacheca di Meloni, passando per i post incendiari di Musk, lo schema è identico. Costruire una matrice, agitare un nemico, usare il dolore altrui come clava. A noi resta l’ostinazione del contrario. Pretendere fatti verificati, difendere i limiti costituzionali, proteggere chi dissente. Perché se l’antifascismo diventa un crimine, la democrazia è già l’imputata.
