Con Fellini avevamo una seria divergenza di opinioni nella preferenza delle sue attrici: per lui non esisteva che Sandra Milo, io ero innamorato di Claudia Cardinale. Entrambe avevano partecipato a 8 ½, la prima in veste dell’amante rigogliosa di Guido Anselmi (il personaggio interpretato da Marcello Mastroianni), la seconda incarnando la ‘ragazza della fonte’ ispiratrice di ogni purezza. Claudia aveva esordito con Monicelli in I soliti ignoti dove rivestiva i panni della sorella siciliana di Tiberio Murgia, gelosissimo, che la teneva segregata in casa con l’ordine perentorio di non aprire mai a nessuno. Ma lei trovava comunque il modo di schiudere l’uscio a Renato Salvatori che, in quella cricca di malavitosi teneri e inconcludenti, se n’era invaghito alla prima occhiata. Non diversamente dal produttore Franco Cristaldi, che l’aveva messa sotto contratto appena lei era giunta dalla Tunisia e poi l’aveva anche sposata. Ma chi non l’avrebbe fatto pur di venir imprigionato nei suoi lacci! Aveva la pelle di magnolia, il sorriso ammaliatore, gli occhi vellutati, un seno da stregare e un corpo sinuoso più morbido di un krapfen alla crema. E la voce, Dio mio! – quando hanno finalmente smesso di doppiarla – roca, torbida, sgranata come una litania di peccati. E per niente veniali. Così l’avevano scritturata uno dopo l’altro i più grandi maestri: Pietro Germi per Un maledetto imbroglio, Mauro Bolognini per Il bell’Antonio, Luchino Visconti per Rocco e i suoi fratelli. Più tardi mi sarei volentieri smarrito con lei nell’immenso palazzo fatiscente del Principe di Salina, prendendo il posto del giovane Tancredi, (Il Gattopardo), e abbeverato alla fonte miracolosa del suo sorriso nel capolavoro di Fellini. Mi raccontava Enzo Verzini, storico stampatore dell’Istituto Luce incaricato del restauro di 8 ½ , che per andare incontro al desiderio del regista l’operatore Gianni Di Venanzo aveva utilizzato nella scena della fonte una pellicola Agfa a basso contrasto, in modo che dall’alone bianco risaltassero al primo apparire soltanto i due occhi neri. Poi, man mano che la figura si avvicinava, prendevano corpo il volto e il candido grembiule aderente. Era una pellicola tedesca oggi non più reperibile sul mercato, e le attuali emulsioni mediamente assai più sensibili non consentono quel medesimo effetto nelle copie in circolazione. Verzini se ne crucciava l’anima:
“Se ce vedesse Fellini, chissà che me direbbe! E Claudia quant’era bella! Sembrava proprio una Madonna, un sogno, ecco come la voleva Federico: un sogno.”
Quando l’ho vista diretta da Valerio Zurlini in La Ragazza con la valigia (1961) ne ho riportato una ferita non rimarginabile. Il film fu riproposto dal Centro Sperimentale di Cinematografia per celebrare il diploma honoris causa conferito all’attrice dal presidente di allora Francesco Alberoni, che di passione amorosa ben si intendeva. In quell’occasione era stato anche annunciato il programma che Pasquale Squitieri, suo compagno dal ‘75, aveva curato per la TV in collaborazione con Giordano Bruno Guerri: otto puntate intitolate Vita di un’italiana (in assonanza con il felice omaggio televisivo ad Alberto Sordi) per raccontare attraverso le immagini la lunga carriera dell’artista.
La filmografia è interminabile, 130 titoli girati in tutto il mondo. Da C’era una volta il west di Sergio Leone, a Il circo e la sua grande avventura, La Pantera Rosa, La ragazza di Bube, Gli indifferenti, Il magnifico cornuto, Vaghe stelle dell’Orsa, Il giorno della civetta, Nell’anno del Signore. C’è bisogno di continuare?
Nella Ragazza con la valigia, lei è Aida, subrettina scervellata così simile alle nostre veline. Insegue la celebrità ed è disposta a molto, come capiscono senza fatica gli uomini che la incontrano: se la ripassano e se la svignano alla svelta. Come agisce del resto anche Marcello Mainardi (Corrado Pani con quella faccia da schiaffi: quanto l’ho odiato! Ma bravissimo) che fingendo un guasto alla sua Lancia Pininfarina Spider, la scarica malamente per strada. E quando lei si ripresenta alla villa, forse un po’ innamorata, lui taglia la corda definitivamente, già preso da altre avventure, mollando la patata bollente al fratellino sedicenne Lorenzo, con il volto imberbe e gli occhi innocenti di Jacques Perrin.
Zurlini dichiarò di aver deciso di realizzare il film ascoltando la storia di una attricetta incontrata per caso. Ma io ci avverto a naso la nostalgia di una bruciatura con tanto di cicatrice. E l’indizio è proprio quella malandrina stagione estiva in cui è collocata la storia, i giorni del solleone e delle cotte.
I due fratelli Mainardi sono rampolli di un’agiata famiglia di Parma. Lorenzo, solitario nella sua dimora aristocratica e infatuato a prima vista della procace ballerinetta, la accoglie con ogni riguardo, le mette a disposizione un intero armadio di spugne candide per un buon bagno ristoratore. E quando la ragazza, rinfrescata e profumata, discende lo scalone avvolta in un accappatoio bianco, con un telo a strisce colorate sistemato in testa come un turbante saraceno, la colonna sonora intona le note verdiane di ‘Celeste Aida’. Sequenza magistrale. “Zurlini è uno dei rari poeti d’amore del cinema italiano.” Aveva annotato Morando Morandini.
La governante, il prete amico di famiglia, si mettono in mezzo, non permettono a Lorenzo, che vorrebbe riparare i torti del fratello seguendo segretamente i battiti del proprio cuore, di occuparsi più a lungo della ragazza; la quale viene duramente richiamata alle sue responsabilità morali e liquidata perché sparisca.
La scena si sposta sulla riviera romagnola, dove Aida si reca in cerca di lavoro nei locali di Rimini e Riccione ripiombando nel suo usuale ambiente di corrotti e approfittatori. Ma il giovane invaghito la raggiunge, si ritrovano insieme a un festino equivoco su una terrazza, dove uomini facoltosi dalle tempie ingrigite si contendono le grazie prorompenti della ghiotta preda. Lorenzo, giovane di buona famiglia, nel suo completo candido come la sua anima, guarda e soffre in disparte mentre lei per non compromettersi lo fa passare per cugino, per fratello. Ma quando all’alba uno degli antipatici adulti (Riccardo Garrone, magnifico sciacallo!) tenta di piegarla alle sue voglie sulla spiaggia, Lorenzo interviene a difenderla, si batte per lei, rimediando una scarica di pugni. Soltanto quando lo vede sanguinante a terra Aida sembra rendersi conto del sentimento del ragazzo – o forse del proprio – e di ciò che di pulito e di bello potrebbe offrirle la vita. Ma lei, vittima della propria bellezza, appartiene alle creature indifese, allo sbando; consapevole che la differenza di età, di ceto, di educazione, scava senza scampo fra loro una trincea invalicabile, fa un passo indietro. La favola è breve, Lorenzo ritorna a Parma prendendo il primo treno della mattina. Si salutano in stazione, dolenti e confusi, promettendo di rivedersi, sapendo che ciò non avverrà mai più. L’ultima inquadratura è sul viso di Aida, un primo piano imbronciato e torpido, smarrito, tormentato, indimenticabile. Un’icona. Durante il fluire delle scene abbiamo ascoltato le struggenti canzoni di quella stagione, dosate da Zurlini in una partitura dolceamara di sapiente malinconia: Mina, Peppino di Capri, Celentano, Fidenco, e la voce celestiale di Beniamino Gigli.
Eravamo noi maledettamente ingenui, o pellicole così non se ne girano proprio più? Ho riproposto il DVD ai miei giovani studenti, e ho spiato sui loro volti i medesimi turbamenti dei miei anni di allora. I sentimenti non cambiano, e non cambia la forza dell’arte, né cambiano gli eterni dissidi dell’amore. E per fortuna neppure la femmina cambia. Se è capace di ferirci alla sprovvista, con tanta dolorosa dolcezza, quando ci appare simile a un miraggio, in quel sembiante irresistibile che Claudia ci donava con miracolosa semplicità. Diceva Mario Soldati che sapeva di latino: “Incessu patuit dea” (nell’avanzare si rivelò per una dea). Aspettiamo che le dee ritornino.
