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Il Jobs Act perde altri pezzi La Consulta: violati i principi  di uguaglianza e tutela effettiva

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La Consulta boccia di nuovo il Jobs Act, questa volta sull’indennità per i licenziamenti nelle imprese con meno di 15 dipendenti.

La Corte Costituzionale, con la sentenza N. 118 del 21 luglio 2025, ha dichiarato illegittimo l’articolo 9, comma 1, del Decreto Legislativo n. 23 del 4 marzo 2015 che ha introdotto il “contratto a tutele crescenti” e cancellato il diritto alla tutela reale, ossia la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015.

Ancora una volta, dunque, la Corte interviene con una sentenza di illegittimità sul Decreto legislativo 23/2015, uno degli otto del Jobs Act, per dichiararne l’illegittimità costituzionale.

Lo aveva già fatto con precedenti sentenze nel 2018, nel 2020 e nel 2024, smontando l’impianto della norma relativa alle tutele crescenti.

Inoltre, tale Decreto legislativo era stato oggetto del voto referendario di giugno scorso.

Nello specifico, con la sentenza pubblicata il 21 luglio, la Consulta ha dichiarato incostituzionale il tetto massimo fisso di sei mensilità previsto dalla norma come indennità risarcitoria per i lavoratori licenziati illegittimamente da aziende con meno di 16 dipendenti per unità produttiva. La disposizione contenuta nella norma oggetto di intervento della Corte, nel determinare l’indennizzo risarcitorio finisce per configurare una misura non idonea a garantire il necessario equilibrio tra una tutela solo di tipo monetario e la necessità che tale indennizzo risulti adeguato a riparare il pregiudizio sofferto nel caso concreto, così mantenendo un ruolo deterrente.

Secondo la Corte la fissazione di un tetto rigido e uniforme è in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione in quanto determina un’ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti di datori di lavoro o imprese con più di quindici occupati e lavoratori dipendenti di datori di lavoro e imprese sottosoglia che invece, oltre a vedersi preclusa la tutela reale, sarebbero destinatari di una tutela indennitaria costretta in una forbice ridottissima da tre a sei mensilità.

Si stigmatizza il fatto che la norma finirebbe per trattare situazioni concrete diverse in modo standardizzato, senza consentire una personalizzazione del risarcimento in relazione alle circostanze del caso di specie per cui la norma non sarebbe in grado di garantire l’adeguatezza e la congruità dell’indennizzo né il ruolo deterrente. Un simile diverso trattamento, in quanto collegato all’esclusivo criterio delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, dipenderebbe, peraltro, da un elemento esterno al rapporto di lavoro, per giunta non più idoneo, di per sé, a rivelare la forza economica del datore.

Per le stesse ragioni l’articolo 9, comma 1 sarebbe in contrasto con l’articolo 41 della Costituzione in quanto l’assenza di indennizzo adeguato a fronte di licenziamenti illegittimi recherebbe danno alla libertà e alla dignità umana anche nelle piccole imprese.

Infine, la disposizione censurata sarebbe lesiva dell’articolo 117 Cost., primo comma, in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, in quanto violerebbe il diritto del lavoratore licenziato senza un valido motivo ad “un congruo indennizzo o ad altra adeguata riparazione” e ad una tutela indennitaria “che abbia un’idonea forza compensativa di quanto il lavoratore ha perso a causa del licenziamento illegittimo e dissuasiva nei confronti del datore di lavoro artefice dell’atto espulsivo viziato”.

Intanto, dopo il pronunciamento della Corte, i giudici che dovessero constatare l’illegittimità del licenziamento, compiuto da aziende “sottosoglia”, determineranno l’indennità senza tener conto del limite delle 6 mensilità. Dovranno, invece, valutare caso per caso.

La palla, a questo punto, torna al legislatore al quale la Corte costituzionale, ancora una volta, suggerisce di intervenire indicando la strada verso una più equa tutela ed una complessiva revisione della complessa e stratificata normativa sui licenziamenti.

Mai come in questo caso calza il detto che “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”, con buona pace di chi continua a difendere contro ogni evidenza riforme che sono invece da abrogare e riscrivere così come chiesto con lo scorso referendum.

 

 

 


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