Giornalismo sotto attacco in Italia

Il mio nome è Balbir: una storia di resistenza

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Conosco Marco Omizzolo da molto tempo. Conosco il suo impegno e la sua disponibilità. La determinazione che da anni è sua fedele compagna tanto da non farlo arretrare dallo studio, dall’approfondimento ma anche dalla partecipazione attiva in quell’ambito che è la difesa del diritto dei lavoratori, dei diritti umani, del diritto di parlare e denunciare, di informare e fare essere persone quegli esseri umani che hanno deciso di intraprendere lunghi viaggi con l’orizzonte della libertà.

Un orizzonte che a volte è una chimera, nonostante la determinazione e l’impegno, nonostante quella Resistenza che serpeggia ovunque e che a volte è l’unica scelta possibile per poter vivere. In attesa delle cose belle che, come dice Balbir, si devono aspettare con pazienza e che spesso arrivano all’improvviso come quel camioncino guidato da chi ha avuto gli occhi e il cuore aperti sul mondo e ha deciso di rispondere alla richiesta di aiuto di uomo che viveva da schiavo.

Marco Omizzolo, sociologo EURISPES e docente de La Sapienza e dell’Università di Foggia, ha pubblicato ancora una volta un libro che è un gioiello “Il mio nome è Balbir” (People), scritto con Balbir Singh . Un romanzo (solo perché scritto in questa forma letteraria) che è il racconto di una vita, quella di un bracciante indiano che per anni è vissuto da schiavo in una terra che si professa democratica e che dichiara nella sua Costituzione di essere fondata sul lavoro.

Ma Balbir è più forte della nostra ipocrisia perché è un uomo in rivolta, un rivoluzionario, un resistente, un partigiano. Un uomo che si alza quando pensa che sia finita e ricade quando pensava che fosse finita, ma che continua a camminare, anche oggi mentre state leggendo. Perché i diritti, a cominciare dai propri, vanno tutelati e protetti sempre.

Come è la situazione attuale nella pianura Pontina?

“La situazione è più complessa rispetto al passato. Lo schema criminale è divenuto più sofisticato anche in ragione di un impegno in termini di controllo del territorio e quindi di attività investigativa repressiva importante da parte della Procura e delle Forze dell’Ordine che ha prodotto arresti, ma non l’arretramento del sistema di sfruttamento che invece è diventato più sofisticato per il coinvolgimento di professionisti sempre più astuti. E per professionisti intendo pezzi della Pubblica amministrazione, commercialisti, avvocati, consulenti vari con la copertura e la relazione con pezzi della politica. Questo schema di gioco è uno schema molto sofisticato di natura prettamente criminale che trasforma il migrante che arriva in Italia, anche in maniera regolare, nella persona perfetta da sfruttare. Perché viene inserito dentro un modello in cui pur avendo un regolare contratto e un permesso di soggiorno diventa una persona sfruttata. O a volte attraverso la collaborazione criminale di professionisti ottiene documenti falsi che apparentemente sembrano garantire la regolarità dell’impiego e invece determinano forme di sfruttamento. La situazione dunque non è migliorata perché non ci sono state a livello nazionale attività politiche di riforma né del mercato di lavoro né del sistema migratorio. Tutto resta fondato su marginalità, sfruttamento, caporalato, padronato e per questo posso dire che siamo solo in attesa del nuovo caso Satnam che potrà verificarsi in provincia di Latina, nel rosarnese, a San Ferdinando o nel nord Italia. E’ solo una questione di tempo!”.

Le denunce sono aumentate?

“Sono aumentate. Ma erano aumentate anche negli anni precedenti, è aumentata la relazione con gli investigatori, cioè le Forze dell’Ordine ma anche l’attività investigativa dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Il problema è che la denuncia non basta. Questo è un punto fondamentale: lo Stato è molto bravo a chiedere agli sfruttati e agli emarginati e clandestinizzati per volontà della sua stessa norma – a partire dal 91-92 la Bossi-Fini – di presentare la denuncia senza preoccuparsi di ciò che accade dopo! E soprattutto non interviene nelle attività di riforma del mercato del lavoro e delle norme sulle migrazioni che sono esistenziali: lo Stato prima politicamente “collabora” con trafficanti e padroni e poi chiede al lavoratore la denuncia e dopo, a fronte di una attività investigativa che dura anni, abbandona quella persona! Al massimo riconosce un permesso di soggiorno che non è la panacea di tutti i mali perché quella persona lavora in un territorio come quello pontino basato per quanto riguarda il lavoro nei campi sullo sfruttamento”.

Da cosa dobbiamo ricominciare?

“Credo sia necessario ricominciare da noi stessi. La vera domanda non è “che fare?”, ma “chi siamo?”. Quello che noi siamo e come ci siamo organizzati sta a definire un grande sistema politico, economico-criminale che produce quella che è la più grande industria del Paese che è quella dello sfruttamento del lavoro soprattutto dei migranti, ma non solo. Quindi rincorrere, denunciare, arrestare, fare processi, sequestrare è importante, come cambiare le norme dello Stato. Ma prima di fare questo dobbiamo cambiare noi stessi. Noi abbiamo rappresentanti del governo che parlano di carico residuale, sostituzione etnica e blocco navale, di invasione e tutto questo sono linee politiche interpretative, di produzione normativa e procedurale che concorrono a determinare quegli stati di sfruttamento e ricattabilità che poi producono i Balbir, i Satnam e tanti altri. L’idea per cui tutto questo si arresta solo aprendo le porte del carcere è un’idea che non mi convince. Come non è sufficiente l’attività di pura sindacalizzazione per cambiare la vita del Balbir di turno. L’attività solo amministrativa volta a produrre il rinnovo del permesso di soggiorno non è sufficiente per spezzare le catene dello sfruttamento. Per farlo NOI con le persone sfruttate dobbiamo tornare a grandi forme di partecipazione democratica. Diventare noi la pietra d’inciampo politica per le riforme necessarie per definirci completamente democratici. Cosa che non siamo! Lì dove c’è sfruttamento, così come quando ci sono le mafie, non c’è democrazia, non c’è libertà, c’è il regime del padrone e del padrino! Dobbiamo collettivamente cominciare a bonificare il territorio dai padroni e padrini ma anche il sistema politico amministrativo professionale e culturale da quelle matrici del razzismo, del pensiero di stato xenofobo, dalle norme e dalle procedure che violano i diritti fondamentali”.

Cosa significa RESISTERE oggi?

“Guardare in faccia le nostre responsabilità De Andrè diceva “ci consideriamo assolti ma siamo per sempre coinvolti” e lo siamo non solo nella dimensione del consumo, ma anche in quella culturale e politica. L RESISTENZA dei lavoratori e delle lavoratrici vittime di grave sfruttamento insieme alla RESISTENZA delle donne afghane, insieme alla RESISTENZA di GAZA, alla RESISTENZA della diaspora eritrea contro la dittatura eritrea, la RESISTENZA degli uomini e delle donne negli Stati Uniti contro il regime di TRUMP, si deve affiancare al grande sforzo nostro di spezzare quel rapporto incestuoso e di convenienza che abbiamo con quelle logiche padronali e di profitto per ESISTERE e RESISTERE con i braccianti, gli edili sfruttati, le donne vittime di varie violenze all’interno della dimensione domestica quando sono dedicate all’assistenza, ma anche con i rider e tutti coloro che a prescindere da colore, genere, nazionalità dicono no allo sfruttamento. Dobbiamo ricordare che il linguaggio è fondamentale. In questo Paese il vero invisibile non è il bracciante, che vediamo, ma abbiamo reso invisibile il padrone perché lo abbiamo vestito con l’abito dell’imprenditore di successo che organizza per altro quel necessario consenso attraverso il potere economico che deriva dalla sua attività criminale per garantire a filiere politiche di restare al governo di questo Paese o di confliggere con quell’attività di resistenza dei braccianti stessi. E Latina è emblematica in questo: nella provincia o per la compromissione di sedicenti sindacalisti o per la compromissione determinata dalla spirale del potere che arriva ad eleggere rappresentanti in Parlamento che derivano dalla provincia e che non hanno mai contrastato caporalato e sfruttamento. Tutto questo deve terminare. I braccianti resistono, noi dobbiamo rinascere e resistere con loro”.

(Nella foto Marco Omizzolo)


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