Una vita all’insegna della passione e della lotta: questa è stata l’avventura umana di José “Pepe” Mujica, per una breve ma intensa stagione presidente dell’Uruguay. Potremmo spendere molte parole sul suo conto, rievocandone la biografia caratterizzata dall’amore e dalla lotta (meraviglioso il suo rapporto con la moglie Lucía Topolansky Saavedra), le passioni rivoluzionarie, lo sguardo sempre rivolto al futuro, il contrasto a ogni ingiustizia, il riformismo autentico con cui ha cambiato il volto del proprio Paese e la scelta, francescana, di vivere in una piccola fattoria alle porte di Montevideo e devolvere il novanta per cento del suo stipendio a favore dei poveri. Ecco, se c’è una suggestione che ci fa piacere coltivare è immaginarlo lassù, impegnato in lunghe chiacchierate con papa Francesco, cui era accomunato non solo dall’appartenenza all’universo latinoamericano ma dalla stessa concezione del mondo, in contrasto con ogni dittatura, ogni sopruso e ogni ingiustizia.
“Tupamaro”, rinchiuso per quasi dodici anni in prigione in condizioni disumane, costretto a subire torture e soprusi d’ogni sorta, ribelle nell’indole e nell’animo, eppure capace di una generosità senza pari, una volta tornato in libertà non ha mai cercato vendetta ma solo di cambiare in meglio l’Uruguay, peraltro riuscendoci anche prima di diventarne presidente.
Delle sue tante frasi significative, ci piace citarne una relativa alla globalizzazione: «No, non è possibile [eliminarla]. Sarebbe come essere contrari al fatto che agli uomini cresce la barba. Ma quella che abbiamo conosciuto finora è soltanto la globalizzazione dei mercati. Che ha come conseguenza la concentrazione di ricchezze sempre maggiori in pochissime mani. E questo è molto pericoloso. Genera una crisi di rappresentatività nelle nostre democrazie perché aumenta il numero degli esclusi. Se vivessimo in maniera saggia, i sette miliardi di persone nel mondo potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno. Il problema è che continuiamo a pensare come individui, o al massimo come Stati, e non come specie umana.»
Il cuore del suo pensiero e della sua azione politica era costituito dalla libertà. Libertà intesa non nel senso odierno di arbitrio e propensione a schiacciare il prossimo sottomettendolo bensì l’esatto opposto: la libertà socialista e progressista di chi vuole costruire una comunità nella quale nessuno sia lasciato indietro, la liberazione dall’essere umano dal bisogno. Libertà come forma più alta di democrazia, come espressione di fiducia nel prossimo, come impegno al servizio dell’altro, come rispetto per cittadine e cittadini senza alcun pregiudizio. Libertà come rifiuto della tirannide in ogni sua forma. Libertà di scelta, come testimoniano, fra le altre, le sue leggi in favore della liberalizzazione della cannabis e dei matrimoni fra coppie dello stesso sesso. Libertà come cifra esistenziale, dimensione del vivere e motore della rivolta contro ogni ingiustizia, in nome di ideali che oseremmo definire illuministi o, per usare una categoria più sudamericana, dalla parte del popolo, un concetto ormai sconosciuto alle nostre latitudini.
Ci ha detto addio a ottantanove anni, questo combattente indomito, appassionato, convinto che “l’unico bombardamento ammissibile in Siria è quello del latte in polvere e dei biscotti”, come affermò nel settembre del 2013, e siamo certi che ripeterebbe oggi le stesse parole a proposito di Gaza, dell’Ucraina e di tutti gli altri paesi stretti nella morsa di conflitti dilanianti.
Ci ha salutato con umiltà e orgoglio, affrontando gli ultimi mesi, quelli della malattia, con incredibile dignità. Ora riposa, se lo merita. E con Francesco ci osserva sorridente, con lo stesso sguardo colmo di bontà con cui è andato incontro a ogni sfida, superando una miriade di ostacoli e facendosi amare da chiunque credesse nell’idea di un altro mondo possibile e necessario. Anche in questo erano uguali.
Addio “Pepe”!
