Saggezza e simpatia concentrati in una sola persona sono rare. Il Papa è una di queste. Arriva in Sala Nervi quando risuonano ancora le note di Oblivion suonate dal Maestro Ughi, si siede con fatica, guarda il plico che deve leggere e lo passa al suo segretario: “troppo lungo, è ora di pranzo e mi brontola già la pancia”. Ma non rinuncia a dire con tre frasi un concentrato di profondità: “non basta dire cose vere, occorre essere veri. E voi – dice rivolgendosi ai giornalisti presenti – lo siete?”. Questa idea di essere e non solo dire cose vere è molto impegnativa, è quasi una preghiera visto il periodo che viviamo.
Prima di Papa Francesco hanno parlato Mario Calabresi, Maria Ressa e Colum McCann. La forza comunicativa della Premio Nobel per la pace è stata dirompente. Lei che ha dovuto lasciare il suo paese, le Filippine, perché il governo le aveva dichiarato guerra, parte dal suo vissuto: le manganellate via social che riceveva dall’autocrate di turno sono subito diventate manette reali, non metaforiche. Fa a pezzi con due frasi quella favoletta che ci hanno propinato sulle piattaforme digitali come luoghi neutrali e chiude il suo intervento con qualche idea per il mondo della comunicazione nell’era delle turbo-destre: parlate con chiarezza, difendete i più vulnerabili, riconoscete il potere che avete nelle mani, ricordatevi che speranza non vuol dire immobilismo.
Più narrativo lo speech di Colum McCann, scrittore irlandese campione del racconto empatico sui fatii di attualità. Spiega innanzitutto che si può parlare di comunicazione solo se oltre a parlare sei disposto ad ascoltare. Frase per nulla banale in un periodo in cui chi non la pensa come i potenti è additato come nemico. McCann descrive un mondo solipsistico: chi non è disposto ad ascoltare l’altro in realtà non vuole neppure che l’altro esista. E’ una forma di disumanizzazione. E chiude con un’immagine così semplice da risultare quasi invisibile nella nostra quotidianità: se il mondo è in pezzi la prima nostra preoccupazione dovrebbe essere ripararlo.
Fin qui la cronaca del Giubileo della Comunicazione. Mano a mano che sentivo quelle frasi mi domandavo se eravamo in una riunione carbonara perché a guardare i TG, a leggere le prime pagine, a scrollare gli account di X c’è esattamente l’opposto. Non solo. Ad assistere e ad applaudire a quei concetti c’erano i vertici della categoria. Giuro, l’ho visto con i miei occhi. Beh: alcune componenti di quelle istituzioni nei fatti fanno esattamente il contrario di quanto hanno applaudito. Delle due l’una: o sono con noi – con la parte democratica della comunicazione, con Articolo 21, con Carta di Roma, per fare qualche esempio di persone che da anni denunciano questi pericoli – e allora dicano pubblicamente che condividono la nostra preoccupazione per lo stato del giornalismo, per i bavagli che ci vogliono imporre, per il linguaggio di odio. Oppure non vengano a fare i sepolcri imbiancati davanti al Papa. Come si fa a conciliare l’invito a dare parola ai più vulnerabili e poi difendere l’hate speech di Feltri? Come si fa a concordare con le preoccupazioni espresse da Maria Ressa e Colum McCann e poi baciare la pantofola ai leader politici che usano i metodi stigmatizzati dai due speaker?
In questa mattina in Vaticano Paola Spadari, segretaria dell’Ordine dei Giornalisti, ha consegnato al Papa il neonato “Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti”. A giudicare da quello che ho sentito Francesco non sembra averne bisogno, al contrario di una bella fetta dei colleghi e colleghe.
Danilo De Biasio, direttore della Fondazione Diritti Umani e consigliere dell’OdG