500 persone, molte ma non tutte del Corvetto, storico quartiere popolare dei migranti (anche quelli italiani negli anni scorsi). Perlopiù giovani anche se c’era qualche famiglia al gran completo; sui marciapiedi qualche ragazzo troppo incapucciato per difendersi solo dal freddo. Percorso breve, ritmato dall’incessante lettura del Corano: “hai scelto una sura particolare?”, domando; “no, il Corano è adatto per ogni situazione”, mi risponde. Ogni tanto l’altoparlante si ferma per dare la possibilità al leader improvvisato del corteo di dare le indicazioni, o di sentire le parole di solidarietà dei centri sociali milanesi. Politici? Pochi: Pierfrancesco Majorino, consigliere regionale del Pd. Presenti i leader della Cgil e dei Cobas. Altre istituzioni assenti. Eppure viviamo nella stessa città, spesso nello stesso quartiere, facciamo lo stesso lavoro, ci lamentiamo per le tasse e ci emozioniamo per un gol: eppure siamo italiani e stranieri, al massimo “seconde generazioni”.
Arrivati davanti all’altare laico di fiori il ragazzo con il megafono dice ai giornalisti: “mettetevi più lontani, lo capirebbe anche un ragazzino che è il momento in cui gli amici vogliono raccogliersi sul luogo dove è morto Ramy”. E i giornalisti, va detto, lo accettano e stanno un passo indietro: nei momenti di silenzio dei flash risaltano le lacrime degli amici di Ramy. Dalle stesse casse dove si sentiva il Corano adesso parla una ragazza: “per carabinieri e polizia noi siamo un problema, potenziali delinquenti. Vogliamo giustizia, è così difficile capirlo”?
Probabilmente se chiedi a ciascuno dei manifestanti ti risponderanno che Ramy è stato ucciso nell’inseguimento. Ma negli striscioni si chiede solo “verità e giustizia”. Un operatore sociale che conosce molto bene il Corvetto mi dice: “in quartiere tutti si sentono Ramy, perché sanno che su quello scooter poteva esserci ognuno di loro. È scattata l’identificazione con la vittima, perché se hai un nome straniero parti svantaggiato. Le prossime mosse delle istituzioni saranno importanti per alzare o abbassare la tensione”.
C’è tempo, prima della fine della fiaccolata di un’ultima sgridata ai giornalisti: il giovane col megafono dice che i giornali parlano di banlieus, descrivono i ragazzi delle periferie come maranza, ipotizzano notti di fuoco “e invece gli abbiamo fatto vedere che non vogliamo la guerra”. Il ragazzo ha ragione: i giornalisti hanno la loro parte di responsabilità nella descrizione basata su stereotipi, alla ricerca di storie strappalacrime e ragazzi ai margini. C’è chi lo fa per pigrizia e chi lo fa con dolo: Vittorio Feltri alla radio della Confindustria ha detto che lui sparerebbe agli arabi, razza inferiore. Domanda: chi vuole bruciare la città?
Danilo De Biasio
direttore Fondazione Diritti Umani