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A Milano fiaccolata per Ramy e per uscire dal ghetto degli stereotipi

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Una nebbia come non se ne vedeva da anni per una manifestazione diversa dalle altre, dove i Mohammed erano sicuramente più dei Mario, dove le Amira erano più delle Giovanne. Sabato sera a Milano c’è stata la fiaccolata per Ramy, il giovane morto dopo un inseguimento dei carabinieri.

500 persone, molte ma non tutte del Corvetto, storico quartiere popolare dei migranti (anche quelli italiani negli anni scorsi). Perlopiù giovani anche se c’era qualche famiglia al gran completo; sui marciapiedi qualche ragazzo troppo incapucciato per difendersi solo dal freddo. Percorso breve, ritmato dall’incessante lettura del Corano: “hai scelto una sura particolare?”, domando; “no, il Corano è adatto per ogni situazione”, mi risponde. Ogni tanto l’altoparlante si ferma per dare la possibilità al leader improvvisato del corteo di dare le indicazioni, o di sentire le parole di solidarietà dei centri sociali milanesi. Politici? Pochi: Pierfrancesco Majorino, consigliere regionale del Pd. Presenti i leader della Cgil e dei Cobas. Altre istituzioni assenti. Eppure viviamo nella stessa città, spesso nello stesso quartiere, facciamo lo stesso lavoro, ci lamentiamo per le tasse e ci emozioniamo per un gol: eppure siamo italiani e stranieri, al massimo “seconde generazioni”.

Arrivati davanti all’altare laico di fiori il ragazzo con il megafono dice ai giornalisti: “mettetevi più lontani, lo capirebbe anche un ragazzino che è il momento in cui gli amici vogliono raccogliersi sul luogo dove è morto Ramy”. E i giornalisti, va detto, lo accettano e stanno un passo indietro: nei momenti di silenzio dei flash risaltano le lacrime degli amici di Ramy. Dalle stesse casse dove si sentiva il Corano adesso parla una ragazza: “per carabinieri e polizia noi siamo un problema, potenziali delinquenti. Vogliamo giustizia, è così difficile capirlo”?

Probabilmente se chiedi a ciascuno dei manifestanti ti risponderanno che Ramy è stato ucciso nell’inseguimento. Ma negli striscioni si chiede solo “verità e giustizia”. Un operatore sociale che conosce molto bene il Corvetto mi dice: “in quartiere tutti si sentono Ramy, perché sanno che su quello scooter poteva esserci ognuno di loro. È scattata l’identificazione con la vittima, perché se hai un nome straniero parti svantaggiato. Le prossime mosse delle istituzioni saranno importanti per alzare o abbassare la tensione”.

C’è tempo, prima della fine della fiaccolata di un’ultima sgridata ai giornalisti: il giovane col megafono dice che i giornali parlano di banlieus, descrivono i ragazzi delle periferie come maranza, ipotizzano notti di fuoco “e invece gli abbiamo fatto vedere che non vogliamo la guerra”. Il ragazzo ha ragione: i giornalisti hanno la loro parte di responsabilità nella descrizione basata su stereotipi, alla ricerca di storie strappalacrime e ragazzi ai margini. C’è chi lo fa per pigrizia e chi lo fa con dolo: Vittorio Feltri alla radio della Confindustria ha detto che lui sparerebbe agli arabi, razza inferiore. Domanda: chi vuole bruciare la città?

Danilo De Biasio

direttore Fondazione Diritti Umani


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