Rwanda 30 anni dopo il genocidio

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Da giovedì scorso sulla stampa francese filtrano notizie sull’intervento che il presidente Macron invierà alle commemorazioni per il trentesimo anniversario del genocidio in Rwanda del 1994 in programma nella capitale Kigali. L’uomo dell’Eliseo non sarà presente ma le parole che verranno lette sono forti, assicura il quotidiano Le Monde.

È un’ammissione di colpa: Parigi avrebbe potuto fermare il genocidio con i suoi alleati occidentali e africani ma non ha avuto la volontà, questa in sintesi l’anticipazione. Laconico il commento delle associazioni che si battono per la verità e la giustizia: è un piccolo passo avanti ma per i sopravvissuti, per le vittime, non serve a molto. Le violenze insanguinarono per cento giorni (da aprile a luglio 1994) lo splendido paese delle mille colline, poco più grande della Sicilia, causando la morte di un numero ancora imprecisato di persone: tra le 500 mila ed il milione. Un conflitto frutto della collaudata strategia di dominio coloniale del “divide et impera”, applicata con solerzia mettendo le etnie una contro l’altra per conservare il potere. Il riconoscimento delle responsabilità francesi non è cosa nuova: negli ultimi anni sono state ammesse con sempre maggior convinzione da Parigi, nell’ottica comunque di rinsaldare i rapporti con Kigali anche alla luce della totale debacle dell’Eliseo nel Sahel (con il fallimento delle missioni militari per il contenimento del terrorismo jihadista) che stanno segnando la fine della Francafrique.

Parigi all’epoca sosteneva il governo che condusse il genocidio senza riconoscere complicità nei massacri ma “limitandosi” ad armare e addestrare quanti vi erano impegnati. La storia dello scontro tra hutu e tutsi è ancora da scrivere e tante restano le zone d’ombra su un massacro impossibile solo da pensare, senza dimenticare che appena il 24 marzo del 1994 (ovvero due settimane prima) la Nato aveva cominciato i bombardamenti sulla Repubblica Federale di Jugoslavia, il primo conflitto d’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. L’opinione pubblica occidentale e mainstream era totalmente concentrata su quello che stava accadendo sull’uscio di casa, impossibile distrarsi con l’ennesima strage africana.

I motivi alla base di quel genocidio sono rimasti irrisolti: in Ruanda vige la dittatura del presidente Paul Kagame, l’uomo solo al comando dal dopo-genocidio, corteggiato da tutte le potenze straniere, capace di aver impresso una accelerazione allo sviluppo del paese ma dove le libertà politiche, di parola, di pensiero sono rigorosamente bandite. Gli strascichi di quel conflitto sono presenti nella confinante Repubblica Democratica del Congo, dove agiscono milizie armate al servizio di Kigali interessate a destabilizzare l’area per governare i traffici di minerali preziosi.

A volte l’autocritica e l’ammissione di colpe sono tardive e poco “sentite”. La brutta politica continua a calpestare la verità.


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