“Il Servizio Sanitario Nazionale rischia di morire”. Intervista con Nino Cartabellotta

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Nino Cartabellotta, presidente del GIMBE, lancia un allarme accorato e suffragato da dati incontrovertibili sui rischi che corre il Servizio Sanitario Nazionale in questepoca5 di tagli, autonomia differenziata e altre misure volte ad accrescere le disuguaglianze anziché ridurle.
Il rischio è la privatizzazione, di fatto già in corso, di un bene primario, previsto dalla Costituzione ed essenziale per la tutela dei diritti individuali e collettivi. Se dovesse venir meno il Servizio Sanitario Nazionale, verrebbe di fatto meno un cardine della Costituzione. Uno dei tanti che sono a repentaglio in questa tristissima stagione.

Premi Nobel e scienziati hanno lanciato un allarme relativo alla sanità pubblica, ormai talmente in difficoltà da star uscendo dagli standard europei. Durante il Covid si era detto che la sanità fosse un bene comune, medici e infermieri venivano considerati eroi. Perché non appena si è allentata l’emergenza, anziché far tesoro di un’esperienza così drammatica, si è addirittura tornati indietro?

Nel pieno dell’emergenza tutte le forze politiche osannavano il valore della sanità pubblica, celebravano come eroi medici, infermieri e tutti i professionisti della sanità. Ma soprattutto convergevano sulla necessità di rilanciare un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che la pandemia ha trovato profondamente indebolito. Tuttavia, passata l’emergenza, la sanità è “rientrata nei ranghi”, ovvero è stata relegata dai Governi degli ultimi vent’anni: governi di “tutti i colori”, che hanno sempre considerato la spesa sanitaria come un costo e mai come un investimento, attingendovi a piene mani per soddisfare le esigenze del proprio elettorato o per risanare i conti pubblici. Di conseguenza, se nel 2010 la spesa sanitaria pubblica pro-capite era pari alla media dei paesi europei, nel 2022 l’Italia ha speso circa € 47,3 miliardi in meno. E dal 2010 al 2022 il gap complessivo ha superato la cifra di € 330 miliardi Riguardo al fabbisogno sanitario nazionale (FSN), ogni anno è sempre aumentato in termini assoluti e sempre aumenterà: per questo ogni governo in carica potrà sempre affermare di aver messo più risorse di chi lo ha preceduto. Nel 2024 la Legge di Bilancio ha aumentato il FSN di ben € 3 miliardi, ma oltre € 2.400 milioni sono destinati all’improcrastinabile rinnovo dei contratti per il personale sanitario. E, soprattutto, per gli anni successivi la Manovra non sancisce alcun rilancio progressivo del finanziamento pubblico per la sanità: perfettamente in linea con la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza del settembre 2023, dove il rapporto spesa sanitaria/PIL precipita dal 6,6% del 2023 al 6,1% del 2026.

Quali sono le principali carenze del Servizio Sanitario Nazionale? 

Con un simile livello di definanziamento è evidente che il SSN si è innanzitutto profondamente indebolito nella sua componente strutturale (ospedali e strutture vetuste, non in regola con norme antisismiche e antincendio), tecnologiche (“parco macchine” inadeguato e distante anni luce dalle innovazioni più recenti), organizzativa e soprattutto professionale. È stato, infatti, il personale sanitario a scontare più di tutti l’imponente definanziamento, complice il tetto di spesa per la spesa del personale che fa ormai riferimento a parametri del 2004. Ma ovviamente non è solo questione di soldi, perché di fatto, a fronte di varie transizioni (epidemiologica, demografica, tecnologica, digitale), negli ultimi 25 non c’è stata alcuna riforma del SSN e il finanziamento, i criteri di riparto del FSN, l’organizzazione dei servizi sanitari, i sistemi premianti e tanto altro ancora seguono regole definite da riforme che risalgono ad oltre un quarto di secolo fa. Dopo un lento e silenzioso sgretolamento del SSN, dunque, oggi tutti i nodi sono venuti al pettine e la vita quotidiana delle persone, in particolare quelle meno abbienti, è sempre più condizionata dalla mancata esigibilità del diritto fondamentale alla tutela della salute: interminabili tempi di attesa per una prestazione sanitaria o una visita specialistica, necessità di pagare di tasca propria le spese per la salute sino all’impoverimento e alla rinuncia alle cure, pronto soccorso affollatissimi, impossibilità di trovare un medico o un pediatra di famiglia vicino casa, enormi diseguaglianze regionali e locali sino alla migrazione sanitaria.

Un altro argomento delicatissimo è quello relativo ai Livelli Essenziali d’Assistenza (LEA). Quali conseguenze potrebbe avere, a tal riguardo, l’autonomia differenziata?

Il nostro SSN è ormai profondamente indebolito e segnato da inaccettabili diseguaglianze regionali. Nel 2021, su quattordici Regioni adempienti ai Livelli Essenziali di Assistenza – le prestazioni che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento del ticket – solo tre sono del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica. Non solo: la fuga per curarsi al Nord vale € 4,25 miliardi, un fiume di denaro che scorre prevalentemente da Sud a Nord. E l’attuazione delle maggiori autonomie in sanità legittimerà normativamente la “frattura strutturale” Nord-Sud: il Mezzogiorno sarà sempre più dipendente dalla sanità del Nord, compromettendo l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute. Ecco perché la Fondazione GIMBE, in audizione alla 1a Commissione Affari Costituzionali del Senato prima e della Camera poi, ha chiesto di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono chiedere maggiori autonomie.

Lei si è occupato, in un recente articolo sulla Stampa, dei poveri che non possono curarsi. Chiara Saraceno ha parlato di coesione sociale mai così a rischio. Ci spieghi nello specifico, specie alla luce dei dati relativi all’indebitamento dei ceti sociali meno abbienti per accedere alle cure.

L’indebolimento del SSN e le conseguenti minori tutele pubbliche hanno un rilevante impatto economico sulle famiglie, in particolare quelle meno abbienti e residenti nel Mezzogiorno. Questo genera un effetto disastroso sulla crescita economica del Paese perché se le famiglie si impoveriscono, si indebitano o rinunciano a curarsi e crolla il livello di salute della popolazione, che è strettamente correlato alla crescita del PIL: perché chi è malato non produce, non consuma e, spesso, limita anche l’attività lavorativa dei propri familiari. E ovviamente erode spesa pubblica, sanitaria e socio-sanitaria. Ecco perché la perdita del nostro SSN, che dobbiamo assolutamente scongiurare, porterebbe ad un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti.

Qual è e quale sarà, in futuro, l’impegno del GIMBE, di cui lei è presidente, per far fronte a questa drammatica situazione?

Dal 2013 la nostra organizzazione indipendente ha un’ambiziosa mission: salvare il Servizio Sanitario Nazionale. Crediamo infatti fermamente che, per quanto vicini al punto di non ritorno, sia ancora possibile non solo salvare, ma anche rilanciare il SSN. E a undici anni dall’avvio della campagna #SalviamoSSN, abbiamo lanciato una rete civica nazionale: riteniamo indispensabile diffondere a tutti i livelli il valore del SSN, come pilastro della nostra democrazia, strumento di equità e giustizia sociale, oltre che leva di sviluppo economico. L’obiettivo è coinvolgere sempre più persone nella tutela e nel rilancio del SSN nonché promuovere un utilizzo informato di servizi e prestazioni sanitarie, al fine di arginare fenomeni consumistici. Perché, al di là delle difficoltà di accesso ai servizi, la maggior parte delle persone non ha ancora contezza del rischio incombente: quello di scivolare lentamente ma inesorabilmente, in assenza di una rapida inversione di rotta, da un SSN fondato su princìpi di universalità, uguaglianza ed equità per tutelare un diritto costituzionale a ventuno sistemi sanitari regionali basati sulle regole del libero mercato.

Mancano medici e infermieri, al punto che alcune regioni li stanno importando da paesi stranieri e addirittura extra-europei. Come valuta l’ipotesi di abolire il numero chiuso a Medicina? 

In termini assoluti, secondo i dati OCSE 2021, non c’è una carenza di medici in Italia. La realtà è invece ben diversa: sia perché l’OCSE include tutti i medici dalla laurea alla pensione sia perché l’emergenza COVID-19 ha slatentizzato una crisi motivazionale che oggi determina licenziamenti volontari e pensionamenti anticipati, con fughe verso il privato o per l’estero, oltre che lo spopolamento di alcuni corsi di laurea (es. scienze infermieristiche) e specialità mediche (es. emergenza-urgenza). Ovvero, oggi mancano medici in varie specialità oltre che medici di famiglia.

Riguardo la mera abolizione del “numero chiuso” – in realtà “numero programmato” – oltre a ridurre la qualità della formazione universitaria, aumenterebbe solo il numero di laureati e non la forza lavoro per il SSN. Con il rischio ulteriore che le nuove leve si trasferiscano all’estero o scelgano di lavorare nella sanità privata, vanificando gli investimenti per la loro formazione. Ecco perché serve un’adeguata programmazione del fabbisogno di medici, mantenendo flessibili gli accessi alla Facoltà di Medicina e adeguando il numero di borse di studio per le scuole di specializzazione a quello dei laureati attesi. Di gran lunga peggiore è la carenza del personale infermieristico. Nel 2021, con 6,2 infermieri per 1.000 abitanti, l’Italia si colloca ben al di sotto della media OCSE (9,9). La parola chiave per il personale sanitario, vera colonna portante del SSN, è “rimotivazione”: aumentare le retribuzioni, migliorare le condizioni organizzative di lavoro (sicurezza, tempo libero, formazione, prospettive di carriera), ma soprattutto fare sentire i professionisti sanitari parte integrante di un pilastro della nostra democrazia che tutela un diritto costituzionale delle persone. Perché la loro demotivazione è innanzitutto figlia della svalutazione del loro ruolo sociale.

Quali investimenti sono necessari, nell’immediato e utilizzando al meglio i fondi del PNRR, per favorire l’immissione di nuovi camici bianchi nelle strutture sanitarie?

La Missione Salute del PNRR rappresenta una grande opportunità per potenziare il SSN, ma la sua attuazione deve essere sostenuta da azioni politiche: urgono infatti interventi straordinari per reclutare in tempi brevi il personale infermieristico, investimenti certi e vincolati per il personale sanitario dal 2027, oltre ad un sostegno concreto per consentire alle Regioni del Mezzogiorno di recuperare, almeno in parte, gli imponenti divari. In altri termini il PNRR deve essere inserito in un quadro di rilancio complessivo del SSN e non essere utilizzato come “stampella” per una sanità pubblica “claudicante”. Altrimenti avremo indebitato le future generazioni per finanziare solo un “costoso lifting” del SSN, senza alcun beneficio reale per l’organizzazione sanitaria e per i pazienti.


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