Gli aforismi ‘clandestini’ di Anacleto Verrecchia

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Nato a Vallerotonda, nel frusinate, nel 1926 – ma torinese d’adozione – e scomparso nel capoluogo piemontese nel 2012, Anacleto Verrecchia, filosofo oggi quasi dimenticato, tardo ed esemplare epigono di Arthur Schopenauer (1788-1860), fu “pensatore, germanista, traduttore, elzevirista, biografo, nonché (last but not least) instancabile viaggiatore”. Laureatosi in Germanistica con una tesi sul fisico e aforista Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799), svolse per diversi anni le funzioni di addetto culturale presso l’Ambasciata d’Italia a Vienna. Nella capitale austriaca fu in contatto con lo zoologo ed etologo Konrad Lorenz (1903-1989) e strinse grande e profonda amicizia con il filosofo ed epistemologo Karl Popper (1902-1994). Collaborò anche con alcune delle più prestigiose testate giornalistiche italiane e tedesche (Il resto del CarlinoLa StampaIl GiornaleDie PresseDie Welt).

“Natura eretica e dissacrante”, altrettanto lontano dagli sterili e compiaciuti accademismi che “dalle lusinghe e dalle menzogne della politica”, dal 1950 al 1953 prestò servizio come guardiaparco sulle Alpi Graie, nella riserva naturale del Gran Paradiso: esperienza fondamentale nella sua biografia e per la sua visione delle cose, da cui sarebbe scaturito l’importante Diario, “punta di diamante della sua produzione letteraria e vero e proprio unicum delle patrie lettere”.

Lo studioso Dario Stanca ne rievoca la singolare e potente figura in un volume a sua cura, Meglio un demonio che un cretino (titolo verrecchiano che rimanda però al ‘celebrato sogno’ del Machiavelli), uscito di recente per i tipi della casa editrice El Doctor Sax, nel quale ha raccolto, dopo uno scrupoloso e puntuale lavoro di cernita, citazioni tratte dalle sue principali pubblicazioni (appunto Diario del Gran ParadisoSulla filosofia da universitàRapsodia vienneseVagabondaggi culturaliLa stufa dell’Anticristo e Lettere mercuriali): esercizio non peregrino, se è vero, come sottolinea il prefatore, che “lo stile frantumato del Diario del Gran Paradiso e il suo radicale pessimismo antropologico lo indirizzavano sul sentiero della grande tradizione moralistica”. Verrecchia, per natura e vocazione pensatore asistematico, non nascondeva del resto di amare la forma breve, che si caratterizza anche per la sua frammentarietà, feconda e libera da condizionamenti:

La verità non si rivela in serie o a lotti. Solo di tanto in tanto è possibile carpire qualche segreto alla natura. Viviamo in una notte fonda, appena rischiarata da qualche lampo. È per questo che la filosofia, anziché per sistemi, dovrebbe esprimersi per aforismi. Una filosofia aforistica, occasionale, rapsodica.”

Dove abbondano le parole, là fa difetto il pensiero.”

Senza ovviamente esentare dalla lettura integrale dei libri sopraccitati, la presente silloge di aforismi ‘clandestini’ introduce al meglio la personalità, le idee, la prosa strenua e brillante di questo incorreggibile polemista e costituisce un affascinante invito alla conoscenza di un intellettuale (nel senso più alto del termine) del quale si sarebbe troppo presto – a pochi anni dalla scomparsa – persa del tutto la memoria se non si fosse attivamente occupato di recente di lui un saggista e pensatore come Marco Lanterna (1973), curatore fra le altre cose di tre sue opere (La catastrofe di Nietzsche a TorinoIl mastino del ParnasoIl cantore filosofo).

Scrittore autodidatta, appartato, libero dai vincoli delle scuole di pensiero eppure pronto a recepire e rielaborare originalmente i testi dei grandi filosofi, classici come contemporanei, Verrecchia “si butta nel mondo a capofitto, gli uomini li conosce fin troppo bene” e ne matura un’opinione assolutamente disincantata.

Le bestie nere contro le quali appunta i suoi strali intinti nel veleno sono, fra gli altri: specismo, accademismo, specialismo, monoteismo, egalitarismo, turismo, antropocentrismo, e dimentichiamo di certo altri invisi ‘-ismi’: avversioni che, a fugare capziosi equivoci, dovevano essere non solo documentate ma anche legittimate entrando nel merito, compito al quale lo Stanca non si sottrae nella densa prefazione e nella avvertita e paziente selezione antologica.

Ne siano anzitutto avvertiti i ‘sinceri democratici’ e gli spiriti convintamente progressisti, gli ottimisti a ogni costo e i paladini della political correctness: da retto e puntiglioso schopenaueriano e ammiratore e traduttore di Georg Christoph Lichtenberg, Verrecchia non poteva in alcun modo dirsi scrittore impegnato, “se non con sé stesso” – consonante in questo con l’amico Giuseppe Prezzolini (1882-1982), per il quale “l’intellettuale impegnato è soltanto un menestrello in cerca di obolo”. Verrecchia ripudiava “le care consolazioni della ciurmaglia” (“democrazia, progresso, storia, uguaglianza”) e condivideva con Giacomo Leopardi (1798-1837) la sarcastica incredulità nei confronti di chi, con ingenuità ipocrita, confida nelle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano.

Verrecchia rifuggiva per natura, prima ancora che per scelta, dalle mode effimere e da ogni orpello retorico, e definiva sé stesso, con più orgoglio che modestia, Selbstdenker (autopensatore), academico di nulla academia, autodidatta e orgoglioso contrabbandiere della cultura, lontano dalle cricche universitarie e dalle loro viete convenzioni.

“Alla stessa stregua dei grandi catastrofisti e pensatori ‘al negativo’, quali Emil M. Cioran (1911-1995), Albert Caraco (1919-1971) o Guido Ceronetti (1927-2018), il suo pessimismo tonifica e, per così dire, ‘tranquillizza’”. Vale per la sua prosa tersa e spietata, allo stesso modo che per tutti i grandi scrittori pessimisti, quanto scriveva Giacomo Leopardi in un passo del suo Zibaldone: “Hanno questo di proprio le opere del genio, che anche quando rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un animo grande servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta.”.

Tuttavia il nucleo dell’ispirazione di Verrecchia è in primo luogo di natura etica, e si esprime, oltre che nell’indignazione di fronte allo spettacolo offerto dai diversi tipi umani (politici, intellettuali, cattedratici), nel superiore principio di compassione universale verso tutti gli esseri senzienti, quasi sistematicamente calpestato dalla nostra specie, e perciò nel rifiuto stringente di qualsiasi forma di antropocentrismo, vicino anche in questo al maestro tedesco e, di riflesso, a quel buddhismo al quale lo stesso Schopenauer si era avvicinato:

Lucrezio dedica versi bellissimi e toccanti alla povera giovenca che riempie di lamenti la campagna perché le hanno ucciso il figlio.”

Presepio naturale: gli animali ricoverati sotto la roccia. Ma il loro Redentore dov’è? Non nella religione cattolica, dove non c’è posto per gli animali. Bisogna andarlo a cercare molto lontano, fino in India.”

Zoofilo convinto, Verrecchia cercò per tutta la vita di mantenere, fatte salve ovvie quanto rade eccezioni, le distanze dai suoi simili – in una parola dall’uomo, “questo forcuto animale escrementizio”. Albert Caraco, filosofo pessimista se mai altri, da lui molto ammirato, nel suo disperante Breviario del caos darà dell’umanità una definizione non meno sconsolata: “mischia di automi spermatici”.

Un altro aspetto che caratterizzò l’attività di Verrecchia è stata la lotta senza quartiere alle caste intellettuali e universitarie, l’avversione per la cultura ufficiale e il conformismo accademico e insomma ogni forma di intellettualismo:

Oggi ovunque abbiamo solo ruminanti: critica, storia della critica e critica della storia della critica. Abbiamo una letteratura di seconda e terza fienagione.”

Premessi al nome di un grande spirito, i titoli accademici diventano ridicoli. Provatevi a dire professore Leonardo da Vinci o dottor Miguel de Cervantes e scoppierete a ridere. La grandezza non sopporta attributi, così come la bellezza non ha bisogno di fronzoli. Chi sbandiera i propri titoli fa venire in mente il proverbio spagnolo: Quando il ferro di cavallo fa troppo rumore vuol dire che gli manca un chiodo.”

Il linguaggio degli animali è più comprensibile di quello di certi filosofi.”

Qui forse, senza nulla togliere all’originalità del Verrecchia, riecheggiano profondi influssi e ricordi di personalità a lui consonanti, del passato come coeve, quali per es. Niccolò Tommaseo (1802-1874):

“Documenti. Certi uomini sono messi al mondo per attestare del vero, certi altri per attestare degli altri uomini; uomini docenti e uomini documenti.”,

Cioran:

“Non si biasimerà mai abbastanza il XIX secolo per aver favorito questa genia di glossatori, queste macchine da lettura, questa malformazione dello spirito incarnata dal Professore – simbolo del declino di una civiltà, dell’avvilimento del gusto, della supremazia della fatica sul capriccio.

Vedere tutto dall’esterno, ridurre a sistema l’ineffabile, non guardare niente in faccia, fare l’inventario delle opinioni altrui!… Qualsiasi commento a un’opera è cattivo o inutile, perché tutto ciò che non è diretto è senza valore.

Un tempo i professori si accanivano piuttosto sulla teologia. Per lo meno avevano la scusa di insegnare l’assoluto, di essersi limitati a Dio, mentre nella nostra epoca nulla sfugge alla loro competenza assassina.” (uno di quegli aforismi che dovevano trasformare Cioran, un intellettuale rumeno che negli anni ’30 aveva subito pericolosamente il fascino del nazismo, in uno dei profeti del ’68 francese),

o Nicolás Gómez Dávila (1913-1994):

“Quanto maggiore è l’importanza di un’attività intellettuale, tanto più ridicola è la pretesa di certificare la competenza di chi la esercita. Un diploma di dentista è degno di rispetto, uno di filosofo è grottesco.”:

citazioni che testimoniano di un’affinità di pensiero che sottraeva Verrecchia all’angusto ambito provinciale di tanta cultura italiana, appaiandolo ad alcuni fra i più originali e risentiti moralisti del XX secolo, tutti più o meno isolati e orgogliosamente autodidatti.

Per l’appunto Verrecchia, nemico dell’odierno imperante specialismo, esalta la categoria degli autodidatti, alla quale si lusinga di appartenere: “le grandi scoperte non sono mai state fatte dagli specialisti, ma dai dilettanti e dagli appassionati come Schliemann”. “Per fare solo qualche nome: Pasteur non era medico e Mendel non era biologo, Morse era un pittore e Franklin uno stampatore”: “come le cattedre di teologia non hanno mai prodotto un santo, così quelle di filosofia non produrranno mai un filosofo”. “Le uniche cattedre ammesse, nella visione di Verrecchia, saranno semmai quelle scientifiche, con il precipuo compito di tramandare dati.”

Sempre con riguardo alla sfera culturale, forte è anche la perplessità di fronte non già alla storia (“Nei luoghi dove è passata la storia le pietre parlano.”), quanto alla pomposa risibile serietà con la quale gli storici di professione interpretano la propria disciplina:

Voler giudicare l’uomo e ricostruirne il carattere in base alla storia è come voler conoscere il carattere della lumaca in base alle strisce che lascia sui muri. La storia è solo l’escremento registrato dalle azioni umane.” La presunzione con la quale i suoi protagonisti pensano di poterla piegare al loro volere gli appare sconfortante: “I rivoluzionari parlano come se potessero scardinare l’universo.” Anche qui, in questo radicale beffardo disincanto, soccorre forse Cioran: “Se la Storia avesse un fine, come sarebbe penosa la sorte per noi che non abbiamo portato a termine niente! Ma nel nonsenso generale ci innalziamo, puttane inefficaci, canaglie fiere di aver avuto ragione.”

Coerente con la sua cultura di appartenenza, Verrecchia è anche spirito caustico, incline a battute salaci:

Ho notato che le donne nubili vengono in villeggiatura per cercarsi un marito e quelle sposate per dimenticarlo.”

Non solo gli svizzeri, ma tutti pensano al PIL economico e nessuno a quello culturale. È la barbarie coperta di lustrini. Quando l’umanità pospone tutto a Sua Maestà il denaro vuol dire che si è messa spiritualmente a gerbido.”

In Italia i riformati alla leva parlano di strategia militare, le zoccole di virtù e i preti d’amore. È un paese alla rovescia.”

Sotto il profilo religioso, non mancano spunti quasi blasfemi in questo nemico giurato di ogni monoteismo e del potere secolare della Chiesa (anche a causa dell’indifferenza da questa mostrato per le sofferenze inflitte dall’uomo alle altre creature viventi, tema ricorrente in tante sue pagine):

Fortissimo tuono nel cielo: si è forse sparato il Padreterno? Motivi per farlo, se è stato veramente lui a creare questo mondo, ne avrebbe parecchi.”

I preti sono i doganieri della vita. Si sono impadroniti di tutti i punti chiave per riscuotere il pedaggio: nascita, matrimonio, morte. Nietzsche li chiama ‘santi parassiti’”.

Di tutte le religioni la più pericolosa e funesta è quella monoteistica, perché un dio unico è geloso del proprio potere e si comporta come quelle piante che non lasciano crescere nient’altro intorno come le conifere e gli eucalipti.”

Fino a qualche secolo fa la Chiesa cattolica, per imporre i suoi dogmi, ricorreva alle forche, ai roghi e alle mannaie. Ora è diventata melliflua e sentimentale, adattandosi alle circostanze come la salamandra.”

Se proprio avete bisogno di un Dio, non cercatelo nel cuore dell’uomo, ma piuttosto nel canto degli uccelli, nel silenzio del bosco, negli occhi di un camoscio o nello scrosciare di un fiume”.

Deluso (quando non disgustato) dalla società, dalla politica, dagli uomini in genere, lungo tutto l’arco della sua vita Verrecchia ricercò una fertile e serena solitudine, non intesa però come sdegnoso aprioristico rifiuto della socialità e dell’autentica amicizia, ma come tentativo inteso a una conoscenza profonda di sé stessi:

Chi è capace di popolare di pensieri il silenzio che lo circonda non ha bisogno degli altri, così come un paese ricco di risorse naturali non ha bisogno di importare materie prime.”

Era inevitabile che uno spirito come il suo entrasse in conflitto frontale con la modernità e molti dei fenomeni che lo caratterizzano. Uno fra questi è certamente il turismo, negazione stessa del viaggio inteso come esperienza formativa:

Viaggiare significa meravigliarsi dinanzi alle cose, grandi o piccole che siano. Soprattutto significa fare di ciò che si vede argomento di riflessione. E invece gli armenti di turisti si trasferiscono solo da un luogo all’altro, senza badare a ciò che vedono.”

Il fratello spirituale di Verrecchia, il colombiano Gómez-Dávila, scriverà dal suo eremo di Bogotà: “In questo secolo di moltitudini transumanti che profanano ogni luogo illustre, l’unico omaggio che un pellegrino può rendere a un santuario degno di devozione è quello di non visitarlo.”

Soprattutto Verrecchia voleva recuperare quella saggezza che il mondo attuale mette quotidianamente a rischio, quando non alla berlina; recuperare i valori semplici che sono a fondamento della sua schietta visione del mondo:

Le piante che crescono rapidamente muoiono anche rapidamente. È così anche per la gloria del mondo?”

La vita è una breve vacanza concessaci dalla morte. E allora viviamola come una vacanza, comportandoci come chi, avendo ancora del denaro in un paese straniero, lo spende come meglio capita, sapendo che tale denaro non avrà più corso una volta ritornato nel paese d’origine.”

“La Terra non è che un’aiuola di pazzi”; “Chi non avrebbe voglia, talvolta, di emettere grida inarticolate?”: aperto invito all’indignazione e alla rabbia, a quell’urlo liberatorio che anche Stanislaw Jerzy Lec (1909-1966) invocava nei suoi Pensieri spettinati (“Ululate. Vi sentirete più giovani di milioni di anni.”)

Verrecchia difese sempre strenuamente la propria coerenza, contro tutto e tutti: “Il numero dei pensatori originali, a suo dire, era davvero esiguo: molto più comodo prendere le idee in prestito e ancora più facile, non essendo farina del proprio sacco, essere pronti a cambiarle. “Questo spiega perché molti, nel campo filosofico come in quello politico, cambino facilmente idea””.

Per concludere questo pur sommario ritratto, non si può non citare fra i maestri elettivi di Verrecchia almeno il prediletto Piero Martinetti (1872-1943), schopenaueriano intransigente in filosofia come nella vita, zoofilo, vegetariano, facente parte di quel pugno di docenti universitari orgogliosamente rifiutatisi di prestare giuramento di fedeltà al fascismo (anche dopo l’offerta da parte del Duce della presidenza dell’Accademia d’Italia).

Al di là del giudizio ingeneroso – troppo ingeneroso – su Nietzsche, da lui definito bambolotto tragicomico o anche genio autistico (“Anche Nietzsche è, almeno in parte, un vischio. Grande e bello finché si vuole, ma pur sempre vischio. Provate a staccarlo dalla pianta su cui è cresciuto – Schopenhauer, Wagner – e vedrete che appassisce subito, perché non ha radici proprie o vita autonoma.”), Verrecchia fu pensatore lucido, onesto, concreto, quanto mai “lontano da ogni intellettualistico divertissement”, mosso sempre dall’urgenza del dire proprio di tutti i veri scrittori, nelle cui pagine si intrecciano, senza che sia possibile distinguere l’uno dall’altra, il pensiero e la vita.

Le citazioni da Anacleto Verrecchia sono in corsivo; le altre parti di testo fra virgolette sono tratte, salvo diversa indicazione, dalla prefazione di Dario Stanca.

Meglio un demonio che un cretino
Anacleto Verrecchia
A cura di Dario Stanca
El Doctor Sax, 2023

Gli aforismi ‘clandestini’ di Anacleto Verrecchia


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