Milàn col coeur in man. La memoria della città nel trasloco di un’ottantenne

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Sul palco c’è solo una donna; sullo sfondo la sua cucina scalcagnata – originale degli anni Settanta e la Milano che fu -, in contrasto con la Milano di oggi. Si chiama Adriana, ha 80 anni ed era la più bella del Lorenteggio, quartiere periferico del capoluogo lombardo. Adriana parla da sola, mentre piega grossolanamente ma con devozione dei vestiti. Quando alza la voce, lo fa per interloquire a distanza con “Africa”, il suo vicino di pianerottolo immigrato che tiene la musica troppo alta. Adriana squaderna e racconta la sua vita, saltabeccando tra il presente dell’imminente ristrutturazione della sua casa popolare, a causa del quale l’Aler (l’azienda della Regione Lombardia che gestisce l’Edilizia residenziale pubblica) impone agli inquilini di trasferirsi momentaneamente fuori città, e il passato. E’ da quando aveva 17 anni che Adriana vive in quei 48 metri quadri, che all’inizio divideva con i suoi genitori e che le sembravano una reggia, col lusso del bagno in casa…

Si racconta bambina, mentre vive con terrore i bombardamenti; ragazza, nel secondo dopoguerra, ad assistere dall’esterno all’inaugurazione della Scala, simbolo palpitante della rinascita della città (“piangevamo tutti”); giovane donna che perde il padre, assiste la madre malata e dà alla luce il piccolo Roberto, sempre lavorando tutto il giorno. Rivediamo le fasi della sua vita dipinte sulla faccia di Ivana Monti, interprete straordinaria della scuola del Piccolo, e nei suoi anche minimi gesti, carichi di tutta l’esperienza da mimo che ha accumulato negli anni di studio. Dice e non dice, incede e esita, declama a testa alta e si abbatte sulla sedia, parla con le presenze della sua vita e ricorda. Coi vicini di casa di allora, tanto diversi, si litigava ma “erano generosi”, quando tornavano a casa dal Sud portavano cibo e regali, se c’era bisogno di una mano c’erano sempre, c’era solidarietà, non si restava mai soli. E adesso? Adesso tutt’al più la gente va a fare jogging… ognuno per fatti suoi.

Il tono del testo di Roberta Skerl, anche lei nata a Milano e formatasi in Scrittura Drammaturgica alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, passa dal divertito e canzonatorio della prima parte al nostalgico e drammatico del finale, senza mai arrivare a piangersi addosso, questo no, questo non si può fare, nemmeno un’ottantenne rimasta sola al mondo, costretta a lasciare la sua casa nella convinzione di non rivederla più. Come non ha mai più rivisto il suo Robi, di cui culla un pigiamino, riposto anch’esso in uno scatolone del trasloco. A ben vedere però Adriana non è sola sul palcoscenico, accanto a lei sta il dialetto milanese, complice, spiccio, sintetico, schietto. Come il padre di Adriana, che aveva chiamato Stalin il cane, che detestava i fascisti, che se n’era andato troppo presto. Come il figlio Roberto, perduto nell’eroina, morto da vittima di una società che espelle i fragili. Un dialetto che ormai pochi padroneggiano, nella città della moda, del design e della pubblicità, eppure testimone di una Milano meticcia, cangiante, sempre in evoluzione, che però rischia di perdere la sua memoria. Adriana, col suo parlare dialetto (e tradurlo subito dopo, facendolo però un po’ rimpiangere per la perdita di espressività), ci riporta nella dimensione di un verso di Gaber, di una canzone di Jannacci, di uno sguardo stralunato di Dario Fo; in quella orgogliosa capacità di criticare la società da testimone interno, da persona fallibile e sofferente che fa parte del quadro che descrive. Rientrando in scena, dopo il finale struggente, a raccogliere applausi da ovazione, Ivana Monti, commossa, rammenta al pubblico l’importanza di non dimenticare le pagine colme di dolore della città, che comunque rimangono dentro di noi. Diventerebbero un rimosso enorme in una città che ha sempre vantato un altissimo numero di associazioni di volontariato e che sta pericolosamente espellendo la “gente” per privilegiare gli “investitori”. Una Milano sempre più “per pochi”, che nel passato, secondo un antico detto meneghino, era col coeur in man.

E’ una vita che sto qui

di Roberta Skerl
con Ivana Monti
regia Giampiero Rappa

produzione Teatro Franco Parenti

Milàn col coeur in man. La memoria della città nel trasloco di un’ottantenne


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