Dalle fiabe alla storia, alla lingua italiana: educare alla parità di genere, senza più cercare alibi

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La parità di genere è una conquista, in ogni ambito della vita sociale. Dopo anni di stallo e reticenze, stiamo facendo passi da gigante. E non saranno critiche o Chissà cosa avrebbero risposto i fratelli Grimm a Paola Cortellesi, che pochi giorni fa a una lectio per studentesse e studenti della Luiss ha dato della colf alla Biancaneve protagonista del loro più famoso racconto, principessa adolescente che cade vittima di una malvagia e invidiosa matrigna che la avvelena con un frutto stregato (pomo della discordia caro all’immaginario patriarcale, dalla mitologia greca al giardino dell’Eden, agli spot della Esselunga) e che viene salvata e portata via da un principe visto una volta sola, senza possibilità di controbattere: persino nella celebre versione disneyana da quel momento in poi Biancaneve non proferisce più parola e asseconda tutto ciò che avviene, dal bacio non consensuale alla salita a cavallo per galoppare verso un castello tra le nuvole.  Una versione edulcorata e fortunatamente surclassata di visione del femminile, anche e soprattutto nell’attuale letteratura per ragazze e ragazzi.

Già nel 2000 la scuola italiana aveva lanciato il progetto POLITE (Pari opportunità nei libri di testo), con un codice di autoregolamentazione per gli editori per promuovere una cultura delle pari opportunità tra maschi e femmine fin dalle prime letture dei nostri figli, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato.Perché, anche se l’evoluzione sociale è rapida e spesso è difficile starle al passo, quella antropologica è molto più graduale e sconta retaggi atavici non facili da scrollarsi di dosso. Basti pensare alla reticenza che ancora alcune donne hanno a declinare il proprio ruolo professionale al femminile, come se rappresentasse una deminutio anziché un surplus di orgoglio. Nello studio “Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari”, pubblicato nell’oramai lontano 2010 da Irene Bienni (Rosenberg & Sellier editore) vennero analizzati 350 libri di testo usati a scuola dai nostri bambini. La studiosa si accorse che la letteratura per l’infanzia formava un immaginario stereotipato, banale e penalizzante per le bambine e analizzando tutte le letture contenute nelle antologie emergeva, ad esempio, che i protagonisti erano per lo più maschi e a loro erano associati una cinquantina di professioni diverse, dal pilota all’astronauta, dal medico allo scienziato, mentre per le bambine il campo si restringeva a 15 tipologie (maestre, veterinarie e, poi, casalinghe, maghe, streghe, fate). Le storie che avevano per protagonisti i bambini, inoltre, erano ambientate in spazi aperti e sconfinati, cosmo incluso, mentre le bambine erano letteralmente confinate in casa, tra la cameretta e la cucina. I risultati dell’indagine di Irene Bienni già tre lustri fa ci dicevano che l’immaginario di “principi azzurri” e “belle addormentate” nel bosco va rinnovato. Le fiabe di una volta non vanno certo bandite, ma integrate – specie in età scolare – con narrazioni differenti: le nostre bambine e le ragazze di oggi sono pronte ad ascoltare “storie” nuove.

Non è un mistero: sugli scaffali delle librerie possiamo trovare già da anni pubblicazioni per i piccoli come “Ettore, l’uomo straordinariamente forte”, storia del circense e forzuto Ettore che adora lavorare all’uncinetto, o “Mi piace Spiderman, e allora?”, delizioso racconto scritto da Giorgia Vezzoli, ispirato dalla sua bambina che è una grande – e incompresa – fan dell’Uomo Ragno (entrambi pubblicati da Settenove, editore attento alla questione dei bias), per non parlare dell’eccellente lavoro di uno dei libri che ha amato di più la mia terzogenita, oggi quattordicenne che sogna in grande, “Storie della buonanotte per bambine ribelli, 100 vite di donne straordinarie, (Elena Favilli e Francesca Cavallo, Mondadori, 2016) per insegnare l’importanza e il potere della ribellione ma anche l’entità degli ostacoli che bambine e ragazze troveranno disseminati lungo il loro cammino. Questa visione giova in primis agli uomini e poi alla società tutta, perché quando si attinge alla capacità di un’intera popolazione, e non solo di un 50%, si aprono nuovi e infiniti orizzonti di futuro per tutti; quando ci scrutiamo reciprocamente liberi dai pregiudizi, creiamo pensieri di progresso; quando riconosciamo e smascheriamo il sessismo e l’oppressione latente e agiamo per contrastarla, diventiamo più liberi e forti. Tutti. E proprio questo esorta Paola Cortellesi nel suo acclamato primo lavoro alla regia, “C’è ancora domani”: quello di bambine, adolescenti, di giovani donne, ma anche di quelle più adulte, non è un destino scritto. Perché non solo gli ostacoli non sono insormontabili ma possono addirittura essere rimossi per coloro che verranno dopo di noi, per un mondo in cui non sia il genere a determinare la grandezza dei sogni o mete a cui ambire e in cui ciascuna di noi sia in grado di dire con certezza “Io sono libera”.  


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