Capita, a ciascuna e a tutte. Ma la violenza di genere occorre riconoscerla per combatterla

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Capita. Che per nove lunghi anni tu sia umiliata, insultata, picchiata a sangue, isolata dal mondo, reclusa in casa a tripla mandata senza un telefono, senza radio o tv, persino senza tappo della vasca per non fartela utilizzare.

Capita. Che negli anni intervengano molte volanti di Polizia a vedere cosa ti sta accadendo ma nessuno proceda d’ ufficio, anche se sa bene che dalla paura di ritorsioni non ti farai refertare da nessun pronto soccorso quei graffi rossi sul pancione al sesto mese, quei lividi, quelle escoriazioni.

Capita. Che a notte fonda dal terrore finalmente ti accenda, perché senti vivo sulla tua carne il pericolo per i tuoi tre bambini che dormono stretti nel lettone.

Capita. Che difenda con tutta te stessa ciò che più conta per te.

Capita. Di essere arrestata, condannata prima sui media, poi nella vita, infine in Aula. “Una condanna esemplare” chiede la pm, donna.

Capita. Che tu non ti senta imputata e voglia raccontare tutto, con il tuo eloquio, la tua personalità, senza finzioni, senza cercare di corrispondere alla vittima perfetta.

Capita. Sei anni di reclusione in primo grado, interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuna attenuante. Per te, nessuna. Potrò mai più lavorare? Potrò mai più scrivere?Potrò mai più uscire di casa? Potranno mai più i miei genitori e i miei figli non vergognarsi di me?

Capita. Che il procedimento per maltrattamenti aggravati che ti vede persona offesa in gran parte si prescriva, come se mai fosse nulla accaduto, nel rimpallo tra tribunali di competenza e continui rinvii in Aula, che tanto c’ è sempre qualcosa di più urgente.

Capita. Che nel frattempo si avvicendano accertamenti psichiatrici (CTU) per giudicarti come madre, che si dice in giro tu sia socialmente pericolosa. Non sia mai sia vero.

Capita. Che le ctu ti descrivano come troppo legata ai tuoi figli – chi se ne importa se la bambina si dispera e non vuole andare dal padre perché lo teme e ha solo cinque anni e ha bisogno di gradualità – a tratti manipolatrice, isterica, istrionica – chi se ne importa se è difficile mantenere equilibrio in una realtà che sembra virtuale, in cui tutti possono essere buoni o cattivi a seconda dei ruoli che giocano, e non capisci più di chi fidarti – e come spiegarlo ai tuoi figli?

Capita. Che il tuo persecutore ti scagli addosso 98 denunzie querele e più di 200 cause civili, che tanto il sistema è fallace e quindi prima o poi se non ti distrugge affamandoti, non ottemperando al sostentamento della prole, non restituendoti oggetti e ricordi che appartengono alla tua famiglia, lo fa a colpi di continui e infiniti atti giudiziari, la nuova frontiera – impunita- dello stalking.

Capita. Che tu continui a non denunciarlo per far emergere il chiaroscuro, che una giudice donna finalmente lo segnali alla Commissione disciplinare dell’ Avvocatura – perché lui fa Tarzan sulle liane della giustizia perché conosce bene come (non) funziona- che trasmissioni TV gli dedichino un mini reportage.

Ma in Aula non accade mai nulla.

Mentre tu fai tre lavori per arrivare a fine mese e ti nutri della sorellanza di avvocate, magistrate e colleghe che ti credono, ti accompagnano e ti avvolgono di speranze.

Capita. Che sia tutto affidato a un singolo istante che può cambiare i fatti oppure no.

Capita. Che un 8 marzo sulla Terra sia lo spartiacque dell’ esistenza. Ma anche quello dell’ esistenza delle altre donne. Perché finché non saremo credute, saremo più vulnerabili. Tutte.

*Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.


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