Marise Ferro. La ragazza nel giardino: un romanzo di formazione

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“Per una donna che fa il mestiere di penna è duro – e ammonitore, almeno per la vanità – constatare che il tempo, salvo rare eccezioni, annulla quasi sempre il suo lavoro. Molte sono le scrittrici che ebbero successo durante la loro vita e che poi il tempo ridusse a zero”*. Questa citazione da un articolo non databile di Marise Ferro, mostra una grande consapevolezza della scrittrice del destino che poteva colpirla. Marise Ferro è infatti una delle straordinarie scrittrici del Novecento cadute per lo più nell’oblio e che la casa editrice Elliot ha proposto all’attenzione nel 2022 con la ripubblicazione di due suoi importanti romanzi “ La ragazza in giardino”(1976) e “La violenza” (1967). Marise Ferro nasce a Ventimiglia nel 1905, il suo nome anagrafico, Maria Luisa, viene abbreviato alla francese dalla nonna materna, aristocratica di Tolosa che vive  insieme al marito “in una villa dal giardino immenso” nell’ estremità orientale di Ventimiglia. In quella villa Marise vivrà fino a diciassette anni, affidata ai nonni dai genitori che si devono spesso spostare per la carriera militare del padre. Frequenta tre anni l’istituto delle Suore Orsoline di San Carlo a Genova per conseguire la licenza magistrale, ma poi lascia gli studi regolari per proseguire la sua formazione da autodidatta. Nel 1936 col suo primo romanzo “Disordine” vince il concorso per esordienti indetto da Arnoldo Mondadori che poi pubblica il libro. Fin dall’ inizio della carriera si delinea il suo interesse per i temi riguardanti la condizione femminile, la necessità di decostruire i ruoli di genere e la necessità per le donne di liberarsi da stereotipi e condizionamenti culturali mistificanti. Altrettanto significativo è il suo impegno contro la guerra con il romanzo/pamphlet del 1949 “ La guerra è stupida”.

Marise Ferro svolgerà un’intensa attività di traduttrice di importanti autori francesi, collaborerà con i principali quotidiani e rotocalchi del tempo, dirigerà dal 1946 al 1947 il settimanale “Foemina” insieme a note scrittrici dell’epoca come Alba De Cespedes, Paola Masino, Sibilla Aleramo e la costumista Titina Rota. Ampia è la sua produzione di racconti e di romanzi. Muore nel 1991 a Sestri Levante, dove è sepolta nella tomba  di famiglia dei Bo, essendo stata per lunghi anni compagna e moglie dell’autorevole critico e storico della letteratura Carlo Bo.

“ La ragazza in giardino”, penultimo romanzo della scrittrice, è una storia di formazione  con forti riferimenti autobiografici.  Per il lussureggiante giardino in cui è ambientata l’autrice si ispira, oltre che al ricordo del giardino dei nonni, ai giardini di Villa Hanbury, che si trovano in effetti alla Mortola e che, essendo oggi proprietà dell’università di Genova sono ora aperti al pubblico, mentre la villa e il giardino dei nonni della scrittrice non esistono più.

“Mio padre e mia madre non erano fatti per la famiglia, non amavano i bambini, un figlio era un impiccio, un essere che a stento riconoscevano appartenere alla razza umana. Erano due adulti egoisti che avevano generato per errore. Appena fuori dell’allevamento, fatto altresì da una balia, fui affidata a nonna Leo, la madre di mio padre”. Questo è l’icastico inizio della storia di Laura che, all’inizio della narrazione in prima persona, ha undici anni. Altrettanto efficace la descrizione di nonna Leo, “una donna avara e ricchissima, dura con se stessa e con gli altri”; arricchitasi in Argentina, dove si era sposata, è autoritaria e senza nessun dubbio su se stessa e su come si  debba rapportare con gli altri. Ha costruito nell’estremo Ponente ligure, in località La Mortola, la magnifica villa Bra e uno straordinario giardino cui dedica tutte le sue cure. Aiutata ad amministrare le sue ricchezze da un giovane e abile avvocato, Alessandro Piccoli, nonostante l’avarizia concede al figlio inetto e fannullone, che vive con la moglie a Milano, una cospicua rendita mensile. Dall’età di cinque anni Laura si trova affidata a nonna Leo che la accoglie con i suoi metodi “La sua tirannia non era crudele né polemica, era sistematica. Io ero una bambina, dovevo lasciarmi guidare da chi era pratico della vita, dovevo obbedire”. Iscritta dalla nonna a un collegio di suore francesi che deve frequentare dalle nove alle sei, l’unico svago per Laura è  il giardino che comincia ad esplorare e a conoscere. Proprio attraverso l’osservazione di quel luogo, che l’autrice descrive mirabilmente, Laura prende coscienza di sé, del suo corpo nello spazio, dei suoi sensi. L’amore per quel giardino e per la natura sarà il tramite che renderà forte il suo rapporto con nonna Leo che la guiderà non solo nell’esplorazione del giardino di Villa Bra, ma anche della tenuta di campagna di Rangero dove si recano nei week – end. Là nonna Leo indossa abiti campagnoli e insieme  si nutrono “ di colore azzurro e di odori campagnoli come di un alimento corroborante”. Ciò nonostante la vita della ragazza trascorre nella solitudine  e solo Amalia, la governante, donna saggia e matura, le offre attenzione e una guida durante le loro conversazioni serali. Per la giovane Laura il rapporto con i genitori non si potrà mai ricomporre e resterà una ferita profonda e dolorosa. Il rapporto con la madre non si riuscirà a ricomporre nemmeno  quando verrà a vivere a villa Bra in seguito alla morte del marito in un incidente aereo, mentre perseguiva uno dei suoi sconsiderati affari. Laura non soffre per la morte del padre e anche la madre esce presto dal lutto. La voce narrante di Laura descrive crudamente le dinamiche famigliari: “Nonna Leo e mia madre, lo capii con uno sforzo, si sentivano libere; libere di un giogo ch’era stato tanto  più duro in quanto era basato sul legame di sangue e della parentela. Esse non dovevano temere più nulla  da un uomo  che per tutta la vita aveva dato loro tormento”. Presto la madre, donna sensuale e superficiale, si risposa con Alessandro Piccoli e in soccorso della solitaria e malinconica adolescenza di Laura verrà l’amicizia con una nuova vicina di casa, Daria Viale, cinquantenne che si è ritirata in solitudine per dedicarsi alla scrittura.

Daria le apre la sua biblioteca e l’avvia al piacere della lettura con un libro significativo,“Cime tempestose”, che dischiude a Laura il mondo sconfinato della letteratura. Per dedicarsi ai libri troverà un posto speciale e solitario in giardino, il chiosco di caprifoglio: “Il giardino mi faceva da letto, da cielo, da orizzonte, da sfondo dell’anima e leggevo in un’estasi continua”. Quando Laura ha diciannove anni irrompe insperatamente nella sua vita l’amore: il nipote di Daria. In vacanza dalla zia dopo aver conseguito la laurea in architettura, cerca ispirazione nel paesaggio ligure per al sua ambizione ad affermarsi come pittore.  Ragazzo di straordinaria bellezza colpisce subito Laura, la quale inizialmente diffida e si chiede se sia anche intelligente. Ma frequentandolo, forse proprio nel momento in cui coglie in lui un tratto di fragilità, di sofferenza, si innamora perdutamente, come accade sempre per il primo amore. Inutilmente messa in guardia sia da Daria che da   Amalia, circa il carattere neghittoso ed egocentrico di Massimo, interessato solo alla sua carriera di pittore, Laura si abbandona incondizionatamente a questo amore “Il fatto è ch’io non avevo bisogno ch’egli mi amasse, mi bastava dargli il mio amore. Glielo diedi intero. Dal bacio profondo arrivammo al possesso”.  Laura vive questo amore non senza consapevolezza: non vuole il matrimonio, sa che Massimo dovrà ripartire, ma vuole vivere pienamente questo amore selvaggio che consumano nel giardino nel boschetto di pini, tra le rocce della spiaggia notturna, in fusione con la natura. Massimo non promette il matrimonio, non nasconde che dovrà partire per trovare la sua strada come pittore, ma promette di tornare ogni estate per rivivere il loro amore. Non manterrà la promessa e Laura ne sarà straziata. Ancora una volta non potrà essere la madre naturale ad aiutarla, ma la sosterranno le due madri simboliche: Daria e Amalia. Laura troverà la forza di dire addio al giardino dell’infanzia e della fanciullezza, di dire addio all’amore per Massimo, che lo aveva “ insudiciato” e a prendere una decisione forte per se stessa.

Il tema  della prepotenza maschile in famiglia, del difficile rapporto madre figlia, di madri simboliche che vengono in soccorso a una difficile adolescenza sono temi presenti anche nel precedente romanzo di Luise Ferro, “La violenza” del 1967. Ma quel libro si concluderà drammaticamente e risuonerà un colpo di pistola di una donna contro un uomo. Un colpo di pistola aveva risolto tragicamente la relazione uomo donna anche  in altri due romanzi : “E’ stato così” di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1947 e in “Dalla parte di lei” di Alba De Céspedes del 1949. Lungi dal suggerire un incitamento alla violenza queste autrici mettono in luce la frustrazione delle donne per l’ormai insostenibile perpetuarsi, anche nel dopoguerra, di un modello sociale che le opprime e a cui darà risposta pacifica l’esplodere del movimento femminista degli anni Settanta.

*Il ritaglio di giornale non permette di risalire né al quotidiano né alla data  di pubblicazione; ora è conservato  tra i documenti consultabili della Fondazione Carlo e Marise Bo di Urbino.


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