“Il ruolo civile del giornalismo d’inchiesta riconosciuto dalla Cassazione”. Il commento del Presidente Bartoli all’ultima sentenza su Gedi

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“In una fase storica nel quale il giornalismo è sempre più sotto tiro e la politica cerca di restringere i confini della libertà di cronaca e di critica, è di grande importanza l’ultimo pronunciamento della Cassazione civile  che, giudicando un caso di supposta diffamazione a mezzo stampa, traccia un vero e proprio ‘statuto’ del giornalismo d’inchiesta, agganciandolo direttamente all’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di espressione”.

Il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, commenta così la recente  ordinanza n. 30522, depositata il 3 novembre 2023, che conferma e rafforza una serie di precedenti sentenze con cui, nell’ultimo decennio, si è formata una ormai consolidata giurisprudenza in materia di inchieste giornalistiche.

“I giudici della Suprema Corte evidenziano il ‘ruolo civile e utile alla vita democratica del giornalismo investigativo che deve esistere ed essere tutelato anche se non approda ad una verità – precisa Gianluca Amadori, coordinatore del Gruppo Giustizia e Informazione del Consiglio nazionale dell’Ordine – Secondo la Corte, infatti, il suo valore risiede proprio nella capacità di stimolo nei confronti della collettività, al punto che se ne devono valutare gli esiti ‘non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede'”.
L’argine posto dalla Suprema Corte ad iniziative diffamatorie è la deontologia. E viene dato il via libera alle inchieste giornalistiche, purché ispirate ai principi di lealtà e buona fede che devono guidare l’attività professionale.
Nel caso deciso con l’ordinanza depositata il 3 novembre,  la Cassazione ha ribaltato il giudizio della Corte di appello che aveva condannato il gruppo editoriale Gedi, ed alcuni suoi giornalisti, al risarcimento del danno nei confronti di un comandante dell’Aeronautica – qualificato in una serie di articoli come “boiardo dei voli di Stato”, “dinosauro della prima Repubblica” , “funzionario dalla tripla vita e dai tripli privilegi” – perché avrebbe assicurato voli di Stato facili ai politici, con grande spreco di risorse, utilizzando velivoli della Cai riservati ai Servizi segreti (sulla vicenda vi sono state anche delle indagine della Corte dei conti poi finite nel nulla ed una richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di un ministro mai accordata dal Parlamento).

“L’attenuazione del canone di verità – si legge nella decisione della Corte – si giustifica alla luce del principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando detto giornalismo indichi motivatamente un ‘sospetto di illeciti’ con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi amministrativi o normativi per potere essere chiarite, sempre che riguardino temi sociali di interesse generale, alla condizione che ‘il sospetto e la denuncia’ siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti; infatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto deve mantenere il proprio carattere ‘propulsivo e induttivo di approfondimento’, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”.

Vengono così parzialmente superati anche i tre caposaldi fissati dalla Cassazione nel lontano 1984 (con la sentenza n. 5259) in materia di libertà di stampa. In essa venivano individuati i tre presupposti in presenza dei quali si può parlare di legittimo esercizio del diritto di cronaca: la verità delle notizie pubblicate, la pertinenza delle stesse e la continenza espressiva.
Il giornalismo di inchiesta, spiega la Corte, soggiace per le sue peculiarità, ad una disciplina in parte diversa e meno rigorosa rispetto a quella dettata per la cronaca o la critica giornalistica
che sia priva dell’elemento investigativo. “Invero – prosegue l’ordinanza -, opera una meno rigorosa e, comunque, diversa applicazione del requisito dell’attendibilità della fonte, fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale dell’esposizione, occorrendo valutare non tanto l’attendibilità e la veridicità della notizia, che il giornalista investigativo ha direttamente acquisito, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede oltre che la maggiore accuratezza possibile posta dal giornalista nella ricerca delle fonti e della loro attendibilità”.
La Suprema Corte afferma il seguente principio di diritto: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il c.d. giornalismo d’inchiesta ricorre anche quando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia, come nel giornalismo ordinario di informazione, ma provveda egli stesso alla raccolta autonoma e diretta della notizia, tratta da fonti riservate e non, anche documentali e ufficiali, con un lavoro personale di organizzazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico. Esso, proprio per il suo ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività, implica la necessità di valutarne gli esiti, non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede”.
(Nella foto Carlo Bartoli, Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti)

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