Livia De Stefani, una scrittrice del Novecento: “La vigna di uve nere” e “Gli affatturati”

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Nell’interessante lavoro che molte studiose stanno  compiendo in questi anni per riportare all’ attenzione la vasta trama di scrittrici del Novecento, Livia De Stefani è ancora una delle autrici meno indagate. Sono reperibili sul mercato le sue prime due opere: “La vigna di uve nere”,ISBN edizioni 2010 e “Gli affatturati”, Elliot 2016. Nel libro di Sandra Petrignani “Le signore della scrittura”, uscito per La Tartaruga nel 1984  e ripubblicato da Baldini e Castoldi lo scorso anno, Livia De Stefani racconta in un’intervista la genesi dei due libri: “Con i racconti degli Affatturati avevo partecipato a un concorso per inediti a Venezia. Mondadori si interessò a me e mi mandò a chiamare. Mi disse: Il racconto non va, non ha pubblico. Però se ha pronto un romanzo glielo pubblico subito e poi in sei mesi le pubblico anche “Gli affatturati”.Era la mia grande occasione, non potevo perderla. Così risposi con una bugia: che sì un romanzo ce l’avevo, dovevo solo finirlo. Mi diedero otto mesi di tempo. Sull’autobus, al ritorno, ero disperata … ed ecco apro una rivista e mi capita sotto gli occhi un articolo che parla di un paese della mia zona. Il titolo diceva: Un dramma greco sconvolge Mazara del Vallo. Un mistero pesa sulla morte di una ragazza di diciassette anni. Avevo trovato la mia tragedia. Avevo la trama del romanzo per Mondadori La Vigna nacque così”.

La vicenda si svolge nella Sicilia dei primi anni del Novecento, anche se ben presto si configura come un’ isola senza tempo, cristallizzata nelle più antiche e cupe tradizioni. Protagonista della storia è Casimiro Badalamenti, un uomo di mafia, autoritario e violento, proprietario di una vigna di uve nere, di cui è particolarmente orgoglioso perché  una rarità nei territori tra Partinico e Alcamo, dove sono coltivate solo uve bianche. Tuttavia, per motivi misteriosi, probabilmente per un agguato in cui vengono uccisi per errore  il padre e il fratello, deve  affittare la vigna e sradicarsi dal suo paese di montagna, Giardinello e trasferirsi a Cinisi, paese di mare. Qui con l’appoggio della mafia, per una sorta di compensazione, avvia affari molto redditizi e accumula ricchezza e potere. A Cinisi si accasa con una donna malfamata, ma abile  a risvegliare le sue passioni, tanto che “Casimiro era attaccato alla carne bianca di Concetta come una mosca allo zucchero”. Lui non vorrebbe figli, che  considera un impedimento, ma ostinatamente Concetta persegue il suo viscerale desiderio di maternità, blandisce Casimiro lo stuzzica con l’ insinuazione che dei figli sarebbero  un’affermazione della sua virilità. Nascono così  Nicola, Gentilina e Rosaria, che , ciascuno ignaro  degli altri e  della propria  origine dopo pochi giorni dal parto vengono affidati a diverse famiglie, in altri paesi. Dopo quindici anni, accumulata una solida ricchezza, Casimiro decide di sposare Concetta, ritornare al suo paese per dedicarsi alla sua amata vigna di uve nere e di riportare a i casa i figli. I ragazzi già grandi e senza tante spiegazioni si ritrovano sotto lo stesso tetto con reazioni diverse. Mentre Rosaria e Gentilina, la più piccola, cercano di adattarsi, Nicola oppone una fiera resistenza tentando di fuggire e scatenando la violenza di Casimiro che non esita, quando deve allontanarsi da casa, a incatenarlo. In questo fosco scenario pian piano nascerà tra Nicola e Rosaria un sentimento che li condurrà all’incesto.  Quando la gravidanza di Rosaria  non si potrà più nascondere Casimiro, padre padrone, che aveva già predisposto il matrimonio di  Rosaria,  cercherà di risolvere la situazione secondo il suo codice dell’onore. Nicola verrà fatto partire in gran fretta per andare a lavorare da uno zio perché “ Il maschio da che mondo è mondo, nella colpa della carne ha meno colpa della donna”, “Il maschio è il fiore del sangue, non si coglie”, “Il maschio è la cima dell’albero, non si spezza”, “ Il maschio non ha grembo, il marciume non alligna in lui”  . Rosaria invece verrà indotta al suicidio perché “ Nella polpa del frutto, che è femmina, là alligna il marciume. E si fa manifesto, a scorno dell’albero e del coltivatore”, “Allora, chi ha cura dell’albero, stacca il frutto. Senza timore, senza rimorso, per sacrosanto dovere”. Ma come nelle vere tragedie non sono gli uomini a governare il destino e non tutto andrà come pianificato da Casimiro. Il tema dell’incesto, trattato dall’autrice con estrema delicatezza, suscitò all’epoca – siamo nel 1953 –  un certo scalpore. Il libro inoltre, pur non essendo un vero e proprio libro sulla mafia non manca in alcuni punti di lanciare precise allusioni al problema sia quando accenna ai loschi affari di Casimiro sia quando si riferisce “all’ereditario sentore per i pesi e le misure degli uomini componenti la scala  da cui s’alza e ombreggia sulla Sicilia centroccidentale il potere segreto della mafia”.

Nell’intervista di Sandra Petrignani  De Stefani rivela “Quando ho scritto La vigna di uve nere pensavo che avrei avuto successo solo in Sicilia, invece i siciliani disprezzarono il libro, lo considerarono un’offesa, tanto che per molto tempo non son potuta tornare nell’isola. Son dovuti passare venticinque anni perché l’atteggiamento mutasse”.  Anche Vittorini, che allora lavorava alla Mondadori osteggiò la sua pubblicazione: “La mia è più semplicemente una Sicilia mitica, identica a se stessa nel tempo – afferma l’autrice e riferendosi a Vittorini – …   Non gli piaceva che altri si arrogassero il diritto di dare un’interpretazione della vita isolana diversa o in aperto contrasto con la sua. Ma era l’unico a opporsi e il libro venne pubblicato”. Più tardi anche Sciascia  criticò il libro. Chi a mio avviso seppe comprendere il valore del mondo e della prosa della De Stefani oltre a Carlo Levi, fu Eugenio Montale  che in una recensione al libro scrisse: “Il romanzo di Livia De Stefani desta fin dalle prime pagine un vivo interesse per la coraggiosa disinvoltura del tono sul quale tutto il libro si sostiene, traendone uno slancio e una freschezza che la densità del linguaggio (per lo più elaborato e anche prezioso) invece di appesantire mette in rilievo. Un tono affettuoso e caldo nella precisione e nell’ordine del racconto, realistico fin dove il realismo può servire … e lievitante poi in un’atmosfera di favola … Se è vero che, come da più parti si lamenta, che pochi nuovi romanzi si fanno leggere con sostenuta attenzione, quello della De Stefani è certo da mettere nel numero” .

“Gli Affatturati”, uscito nel 1955, ristampato solo nel 2016 e che ottenne il premio Soroptimist nel 1956, è costituito da tre racconti di ambientazione urbana in cui De Stefani indaga gli ambienti dell’aristocrazia e della borghesia  della sua terra, di cui rappresenta con un tono a volte ironico personaggi che con le loro passioni sono travolti da un vento di follia. Essi sono infatti affatturati, stregati, presi da una malia che contagia chi ne viene a contatto: “Sono affatturati, peggio che matti, hanno stregato anche me. Disgraziati o fortunati, giudicherà la città quando racconterò tutto. Io non ci capisco niente, non posso far niente, mi hanno imbrogliato le carte” pensa arrendendosi il capitano dei carabinieri, “ uomo del nord, ostile al clima, alle abitudini e agli uomini dell’isola”, quando cercherà di contrastare il marchese di Fontesecca. Costui, personaggio esistito veramente, è il protagonista del primo racconto. Affetto da fobie di infezioni, costringe la moglie e la figlia Matilde a vivere in isolamento, secondo un regime di regole assurde. Lui stesso istruisce la bambina che non può frequentare la scuola e conosce la città solo di notte quando può uscire col padre. Le manie del marchese sveleranno le loro radici autoritarie e patriarcali, che affondano nelle superstizioni e nei pregiudizi di una Sicilia primitiva, quando la figlia si ribellerà. Nonostante la stretta sorveglianza riuscirà a fuggire per amore con un coetaneo, ma dopo un mese il marchese la riporterà a casa e la segregherà in una soffitta sprangata del castello, condannata a scontare la sua vergogna, poiché ormai nessuno più la vorrà sposare.  Tuttavia sarà tale l’orgoglio di casta  e la malia esercitata dal padre chela ragazza rifiuterà la salvezza dichiarandosi folle e consenziente alla reclusione, quando lo sbalordito capitano dei carabinieri interverrà per liberarla.

Anche i protagonisti degli altri due racconti, “Giuditta Malaspica” e “Gustavo Darò”, sebbene diversi, sono affetti da fissazioni e tendenze infelici che rendono difficile la loro vita. Nel caso di Giuditta Malaspica la vicenda è complicata dall’uso della morfina, ma in un contesto del tutto particolare. Il ritmo del racconto è sempre incalzante e cattura il lettore. I primi due racconti si snodano in un’atmosfera tra la realtà e la fiaba, tipico di De Stefani, mentre la storia di Gustavo Darò indugia sulle caratteristiche psicologiche dei personaggi narrati con un certo amaro sarcasmo.

Della scrittrice siciliana è stato più volte scritto che nelle sue pagine si danno appuntamento “Giovanni Verga e Henry James, per il dosaggio perfetto di dati ed eventi reali, e di misteri, ombre e minacce, che tutto avvolgono”. Speriamo dunque in una ripubblicazione delle sue numerose opere, fra cui la produzione poetica.


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