Lampedusa dieci anni dopo

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Non si può comprendere ciò che sta accadendo in questi giorni a Lampedusa se non si inscrive il fenomeno migratorio che ci riguarda da vicino nel più ampio contesto della crisi climatica, politica e sociale che sta sconvolgendo l’Africa. Il terremoto che ha squassato il Marocco e l’alluvione che ha ridotto in ginocchio la Libia altro non sono, infatti, che il compimento di un insieme di catastrofi che stanno mettendo a repentaglio la tenuta stessa degli equilibri globali. E sempre lì si torna: alla globalizzazione dissennata che fece seguito all’abbattimento del Muro di Berlino, quando un Occidente arrogante e protervo proclamò la “fine della storia” e la propria indiscutibile supremazia rispetto al resto del mondo, salvo doversi scontrare, pochi anni dopo, con l’assurdità di un simile postulato. Oggi quel modello è fallito, non esiste più, non ha alcun senso, come dimostrano le prese di posizione di quasi tutti i più illustri analisti e commentatori globali nonché i propositi dei principali governi sulle due sponde dell’Atlantico, per cui Davos, sede del Forum economico mondiale (World Economic Forum), un tempo era una sorta di luogo dell’anima mentre oggi è una località dalla quale tenersi lontani. E allora siamo chiamati a fare i conti con una realtà radicalmente mutata, che impone un cambio di mentalità e di paradigma. Il Sud del mondo si sta ribellando all’ingiustizia, si sta coalizzando, come si evince dal recente ampliamento dei BRICS, e ha deciso di mettere in discussione la nostra decadente supremazia e di sfidarci a viso aperto. Non solo: la Cina si è recata in Africa per dar vita a una colonizzazione “gentile” e penetrarvi a livello culturale e commerciale mentre la Russia non è certo dispiaciuta per i colpi di Stato a ripetizione che stanno facendo saltare i discutibili governi delle ex colonie francesi. E così, a dieci anni dalla tragedia di Lampedusa, quando assistemmo al naufragio di un barcone con a bordo trecentosessantotto migranti, ci troviamo di fronte a un disastro politico, sociale e diremmo pure diplomatico, poiché è evidente che i nostri intollerabili accordi con alcuni paesi del Nord Africa si stanno rivelando di cartapesta, senza precedenti.

Una sinistra degna di questo nome, in una fase storica tanto delicata, non può tirarsi indietro. Al cospetto di un’emergenza umanitaria di queste dimensioni, che temiamo venga fronteggiata dal governo nel modo che gli è più congeniale, abbiamo il dovere di fare dell’umanità la nostra bandiera, dell’accoglienza la nostra ragione di esistere, dell’integrazione il nostro progetto politico e del rifiuto di ogni barbarie il nostro spirito guida. Sarebbe, altrimenti, quanto mai ipocrita andare a rendere omaggio alle vittime di dieci anni fa: lacrime di coccodrillo che abbiamo già visto in passato e che riteniamo sinceramente offensive.

Di fronte a un’isola al collasso, dobbiamo ribadire che per noi quel lembo di terra è la porta dell’Europa e che i suoi abitanti, che, a cominciare dai pescatori, hanno posto il soccorso agli ultimi fra gli ultimi in cima alla propria agenda quotidiana, sono degli eroi civili.

E no, non ha senso esaltarsi perché Francia e Germania chiudono le frontiere per ripicca nei confronti dell’esecutivo italiano. Meloni e soci non ci piacciono nemmeno un po’ ma noi siamo patrioti europei, convinti che le frontiere debbano restare aperte tanto a Lampedusa quanto a Ventimiglia: ovunque ci sia una persona in difficoltà, lì devono giungere aiuti umanitari e civiltà. Incalziamo, piuttosto, la presidente del Consiglio, ricordandole che se siamo arrivati a questo punto, è proprio a causa del populismo elettorale e del sovranismo diffuso che comincia a contagiare anche coloro che dovrebbero tenersene lontani. In caso contrario, ribadiamo, il prossimo 3 ottobre non avrebbe senso gettare una corona di fiori in mare e inginocchiarsi per recitare una preghiera, anche se atei, in segno di rispetto verso esseri umani la cui unica colpa era quella di essere nati sulla sponda “sbagliata” del Mediterraneo.

Credenti o atei, dobbiamo appellarci al Dio d’Avvento, il cui messaggio viene costantemente portato avanti da papa Francesco, straordinario interprete di cosa sia una leadership e di quali valori debba incarnare, soprattutto di fronte all’orrore, più che mai quando battersi per un’altra idea di società sembra essere vano.


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