Donald Trump è un pericolo per la democrazia 

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Che si sia di destra, di centro o di sinistra, di fronte a Donald Trump non si può restare in silenzio. Ciò che sta accadendo in America, infatti, mette in discussione il concetto stesso di democrazia e quei presunti “valori occidentali” di cui da tempo ci riempiamo la bocca. E sbagliano quegli editorialisti che trattano il drammatico susseguirsi di strappi e forzature con nonchalance, guardandosi bene dall’uscire dal cerchiobottismo che purtroppo li caratterizza.

Donald Trump costituisce un rischio enorme per il nostro stare insieme, in quanto non rispetta alcuna legge, se non quella del più forte. E il più forte, sondaggi alla mano, è lui. È più forte degli scandali, delle accuse, dei processi, delle denunce, degli arresti sventati dal pagamento della cauzione, delle foto segnaletiche che avrebbero stroncato la carriera di chiunque altro, delle mobilitazioni e delle proteste. È più forte della libera stampa che ancora lo attacca e ne contrasta l’ascesa. È un moto irresistibile della storia ed è il figlio legittimo di questa stagione di declino e di degrado, in cui un Occidente senza sogni, senza utopie, con una demografia in flessione e un precariato esistenziale che ha stravolto la vita di intere generazioni si dimena alla ricerca di se stesso, senza trovare un perché né una ragione di esistere.

Donald Trump viene fuori grazie alla globalizzazione dissennata e alle sue storture, al liberismo sfrenato che ha coniugato Reagan, Clinton e i due Bush, al sostanziale fallimento della pur discreta presidenza Obama e alla furia incontrollabile di un Paese ormai sull’orlo del baratro, prossimo a una guerra di secessione che non sarà combattuta alla maniera rappresentata dai western che abbiamo apprezzato da ragazzi ma attraverso tante, diffuse ingiustizie di cui a fare le spese saranno, ovviamente, i più deboli. L’America che abbiamo amato, quella di Roosevelt e di Kennedy, dell’ideologia onusiana e dei suoi principî costituzionali, quell’America non esiste più. E la decadenza del “Numero uno” porta con sé, a catena, conseguenze imponderabili. In Europa, difatti, non avendo ancora adottato il sistema presidenziale, se non in Francia, dove il semi-presidenzialismo e la monarchia repubblicana di matrice gaullista mostrano ormai la corda, non abbiamo ancora assistito a drammi come l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Fatto sta che abbiamo rigurgiti fascisti e xenofobi continui, partiti dannosi e anti-costituzionali in ascesa a ogni latitudine e una società civile spaccata, frammentata, divisa come non mai e pronta a tutto pur di provare a rallentare il proprio scivolamento verso la miseria. Un impoverimento, è doveroso sottolinearlo, figlio della guerra e dei rincari dovuti all’innalzamento del prezzo dell’energia e delle materie prime ma anche della quarantennale svalutazione del lavoro, dei cedimenti della sinistra al totem capitalista, dell’abbraccio acritico ai dogmi del Washington Consensus e del fatto che il Vecchio Continente esiste di nome ma non nella realtà, avendo una moneta ad accomunarlo ma non un orizzonte condiviso e una prospettiva concreta verso cui rivolgersi tutte e tutti insieme.

Qualora il magnate newyorkese dovesse tornare alla Casa Bianca, carico di rabbia e d’odio e intento a vendicarsi per i presunti torti subiti, non guarderebbe in faccia a nessuno, non avrebbe pietà di chicchessia e calpesterebbe leggi, regole e norme costituzionali, schiacciando il tutto sotto il carrarmato della sua natura intrinseca. No, non siamo di fronte a un personaggio convenzionale: non è un avversario da combattere ma un soggetto che si è posto, già più volte, al di fuori dei canoni che proprio l’America ci ha insegnato ad apprezzare. Ribadisco: nessun altro, in nessun’altra epoca, sarebbe potuto sopravvivere politicamente a ciò a cui è sopravvissuto Trump. In quella Nazione sono state distrutte carriere di prestigio per molto meno, e per sempre. Se uno accusato di aver tentato un colpo di Stato, dopo aver strizzato l’occhio al suprematismo bianco ed essersi circondato di una serie figuri le cui teorie ci riportano ai periodi più bui della storia su entrambe le sponde dell’Atlantico, se uno così, quasi sicuramente, vincerà le primarie del partito che un tempo fu di Lincoln, senza che nessun contendente, nemmeno i più imbarazzanti, retrogradi e oltranzisti, possa in qualche modo scalfirne la presa sulla base, significa che è già avvenuta una mutazione antropologica dalla quale non possiamo aspettarci nulla di buono. L’unica cosa che possiamo fare è denunciare, denunciare e ancora denunciare questo scempio, scrivendo a caratteri cubitali che oggi sta accadendo lì e domani, senza dubbio, in caso di una nuova affermazione oltreoceano, accadrebbe da noi, nel contesto di una democrazia assai più fragile e oltretutto squassata da molteplici crisi che hanno già ridotto il sistema politico e istituzionale a uno scheletro.

C’era un tale che sosteneva che i trattati altro non fossero che pezzi di carta. Aggiungiamo noi: anche le Costituzioni e le leggi, per quanto ci stia a cuore un determinato sistema di valori e gli ideali che ne sono alla base. Quando una democrazia decide di suicidarsi, non c’è argine che tenga, come ben ci insegna la nostra storia e la potenza degli argini che vennero eretti dai padri costituenti quando la sbornia tirannica giunse finalmente all’epilogo. L’autore di quella riflessione si chiamava Theobald von Bethmann-Hollweg, cancelliere del Reich durante la Prima guerra mondiale, e anche in Germania sappiamo com’è andata a finire.


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