Il 24 luglio a Roma per Padre Paolo Dall’Oglio

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Il 24 luglio a Roma si parlerà di padre Paolo Dall’Oglio. Mi fa molto piacere che ciò accada prima in una sede istituzionale,  Palazzo Chigi, dove finalmente un sottosegretario di Stato, Alfredo Mantovano, ricorderà Paolo ricevendo l’arcivescovo di Homs e cofondatore con padre Paolo della Comunità di Mar Musa, Jacques Mourad. Si legge nel comunicato ufficiale del governo: “Al centro del colloquio, richiesto dalla Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, le drammatiche condizioni delle comunità cristiane della Siria a 12 anni trascorsi dall’inizio della guerra. L’incontro sarà anche l’occasione per ricordare Padre Paolo Dall’Oglio, a pochi giorni dal decennale del rapimento avvenuto a Raqqa il 29 luglio”. Che le istituzioni italiane almeno ricordino un cittadino italiano, il cui destino è ancora ignoto,  è importante: sin qui che io sappia lo ha fatto solo il presidente Mattarella nel suo primo discorso di insediamento. Per lui la sete di verità sembra riguardare poche persone. Anche la “società civile” è poco incline a parlare di lui, va ammesso, forse perché è stato scomodo certamente per le istituzioni, ma non solo. Ma chi ne parla torna in rapporto con una grande fetta d’Italia; la sua è presenza costante, piena di amore e affetto, per tantissimi italiani, cattolici e non.

Sempre il 24 di luglio padre Mourad sarà alla presentazione del mio piccolo libro su Dall’Oglio, e questo mi fa molto piacere; per l’amicizia e l’ammirazione che mi legano a padre Jacques- anche lui per mesi sequestrato dall’Isis, poi fuggito- ma soprattutto per le persone con cui interloquirà in quell’occasione: il collega Lorenzo Trombetta, esperto di Medio Oriente che mi fece conoscere Paolo e che meglio di me ne sa il valore profondo per tutto il Medio Oriente, con due sorelle di Paolo, Immacolata e Francesca, alle quali è unito dalla sua fraternità spirituale con Paolo, con il suo concittadino Nader Akkad, nato come padre Jacques ad Aleppo e ora imam alla Grande Moschea di Roma, che ho sempre chiamato “l’imam dallogliano” per il rapporto profondo tra l’Islam in cui lui crede e quello che Paolo amava, o ama e poi, last but not least, con due gesuiti che sono per me l’estensione dei due volti gesuiti di Paolo: il volto impegnato nel sociale, padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, e il volto teologico, padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica. Una presenza questa per me motivo di autentica felicità, perché mi fa sperare di poter finalmente sentir parlare di quanto il pensiero e l’opera di Paolo appartengano all’ospedale da campo di cui Francesco parlò per la prima volta proprio con padre Spadaro, nella famosa intervista che gli rilasciò per La Civiltà Cattolica.

Dunque sarà Paolo il centro della loro discussione, non quel che ho provato a scrivere io. Altri interlocutori importanti avrei voluto invitare, per fare finalmente un’assemblea italiana su un uomo che per me non merita la nostra attenzione perché è stato rapito, ma per i motivi per cui è andato dai suoi rapitori. Non loro sono andati a cercarlo, ma lui è andato a cercare loro. Io dico che lo ha fatto per tentare di fermare quel che poi è accaduto, con i siriani liberi, con i curdi, con la loro costola pre-islamica,  gli yazidi, e con i loro compagni di casa, i cristiani di Mosul.

L’occasione di parlare di Paolo, dei motivi che lo spinsero a dire “io vado” è per me l’occasione per tornare  non sull’esito misterioso del suo sequestro, ma sulle cause di questo mistero. L’Isis non ha rivendicato il sequestro: perché hanno avuto paura di dirlo? Non si trattava in fin dei conti, nel loro linguaggio, di “un infedele”? E quale problema avrebbe creato loro rivendicarne poi l’eventuale esecuzione?

Ma l’occasione di un giorno romano nel quale finalmente si parla di Paolo non va sciupata a parlare dei sui rapitori, ma di lui, di  un uomo che non esita a bussare al portone dell’Isis per sua libera scelta e della visione del teorico del “pantano”.

Parlando di allora e di oggi tutti ricorrono al vocabolo “terroristi” per spiegare l’enormità dei problemi e la difficoltà delle scelte da compiere. Lui no. Questo vocabolo lo usava raramente e contro voglia. Non esiste una discarica umana dove gettare questi “custodi del male assoluto”; no, esiste il pantano, che Paolo ha teorizzato e definito anche “l’oscura cloaca” dove servizi segreti, terroristi, gruppi armati, narcotrafficanti, corrotti e corruttori, riciclatori di denaro sporco, mercanti di esseri umani e di armi, possono ordine ogni complotto. E il pantano si prosciuga solo con la trasparenza. I presunti “mali minori” sono componenti del pantano, non l’alternativa.

Questo del pantano è un tassello del pensiero di Paolo che io ritengo molto importante, quanto la sua evidente convinzione che non violenza e autodifesa sono due poli che non possono elidersi, ma che devono coesistere, evitando così che l’autodifesa sfoci in bestialità aggressiva, come quella dell’aggressore: è quella violenza mimetica di cui parlò René Girard, un autore che ha molto da dire a chiunque voglia capire la battaglia di Paolo per il popolo siriano e il suo diritto a resistere alla ferocia del regime ( “non possiamo rimproverare ai siriani di non essersi lasciati uccidere dal regime”), senza mai condividerne però i metodi, pena il cadere nella violenza mimetica. Quest’anno poi, la piccola associazione di giornalisti amici di Paolo che presiedo e Articolo21, il 29 luglio invece non faremo iniziative romane o incontri con la stampa su Paolo. Troppo caldo? No, troppo importante la Messa a Sant’Ignazio celebrata dal Segretario di Stato Vaticano alle 19 e preceduta alle 17 dalla presentazione del volume pubblicato dal Centro Ambrosiano che raccoglie alcuni testi inediti di Paolo, conferenze che tenne a Mar Musa sulla regola della sua comunità.


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