Henry Kissinger e il caos contemporaneo 

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Molto è stato celebrato Henry Kissinger, assurto improvvisamente a emblema del pacifismo e della lungimiranza in politica estera, pur portando sulle spalle la responsabilità di alcune fra le più grande tragedie del Ventesimo secolo. A noi, sinceramente, basta ricordare il colpo di Stato in Cile, di cui di fatto fu l’ispiratore, per non unirci al coro dei laudatores che da mesi stanno rendendo omaggio all’illustre centenario. Partiamo da qui perché questo episodio, tutt’altro che casuale, rende bene l’idea del caos in cui si dibatte da diversi anni il nostro mondo, al crepuscolo della globalizzazione liberista che, proprio in Italia, a Palazzo Ducale, a Genova, venne esaltata e mitizzata dagli stessi che oggi ne spiegano le storture. Tutto ciò che sta accadendo, e questo va detto, deriva da lì, compresa la guerra fra Russia e Ucraina, che altro non è che uno scontro fra imperialismi in cui Putin, uno dei partecipanti al G8 di Genova, ha deciso di sfidare a viso aperto le debolezze e la fragilità intrinseca dell’Occidente. Un Occidente, va detto, che si riempie la bocca di parole come “valori”, “ideali” e “principî” ma che negli ultimi vent’anni non ha fatto altro che calpestarli, fino a incarcerare un giornalista, e prim’ancora un uomo, Julian Assange, la cui unica colpa è di aver svelato i nostri misfatti. Spiace dirlo, ma se siamo ridotti così bisogna comprendere le ragioni del nostro declino, e qui non parlo dell’Italia ma dell’intero universo occidentale, da ventidue anni in guerra con se stesso e ormai rassegnato all’irrilevanza. Bisogna partire dell’Afghanistan e dall’Iraq, forse da prima: dai conflitti balcanici, dalle guerre fratricide nel cuore dell’Europa, dall’inferno di Srebrenica e dal nostro silenzio, dalla nostra colpevole indifferenza, dalla nostra “missione di pace” in Serbia di cui oggi che la storia sta dimostrando di non essere per nulla finita stiamo comprendendo la portata e le conseguenze. Prova ne sia lo scontro etno-nazionalistico cui stiamo assistendo fra due paesi, Serbia e Kosovo, mai davvero pacificati, mai davvero disposti a collaborare e in preda a un odio antico che ora sta riemergendo in tutta la sua potenza distruttiva, a riprova del fatto che la democrazia non può essere esportata con le bombe e che i confini dei singoli stati non possono essere determinati a tavolino da altri.
Grecia, Spagna, Italia, Turchia: quattro paesi al voto di recente e altrettante affermazioni di una destra che non ha più nulla di liberale e che, giustamente, fa paura, soprattutto in un contesto internazionale in cui il leader dei popolari europei, Manfred Weber, non solo non esclude l’alleanza fra il PPE e i Conservatori, ossia il raggruppamento di Giorgia Meloni e del PiS polacco, ma addirittura la auspica, così come auspica muri, recinzioni e politiche migratorie che nulla hanno a che spartire con la saggezza di Angela Merkel dopo la tragedia del piccolo Aylan. “Wir schaffen das”, ce la faremo, disse la Cancelliera quando decise di aprire le porte della Germania a oltre un milione di profughi siriani: è una frase che vale quanto il celebre “Whatever it takes” di Mario Draghi, forse ancora più importante, almeno se si pensa, e noi siamo di questo avviso, che i diritti umani vengano prima di tutto e siano più importanti di ogni altra cosa.
La Grecia è stata dapprima strangolata dalle misure inumane della Troika, con i bambini che svenivano nelle scuole per via della malnutrizione legata alle politiche di austerità, e poi straziata una seconda volta nel momento in cui la volontà popolare è stata barbaramente calpestata. Era il 2015 e Tsipras aveva chiesto ai greci di pronunciarsi,  tramite referendum, in merito alle nuove misure capestro imposte dall’Unione Europea. Come previsto, prevalsero i NO ma lui, posto sostanzialmente sotto ricatto dall’UE, perse quella sfida, fu costretto ad arrendersi, dovette sostituire l’allora ministro delle Finanze Varoufakīs con Tsakalōtos e, infine, perse le elezioni. È andata allo stesso modo qualche settimana fa, con una nuova affermazione di Mītsotakīs, ossia di quel partito, Nea Demokratia, che fu il principale responsabile dei bilanci truccati e del collasso greco di inizio secolo. Non solo: siamo al cospetto di un presidente del Consiglio che non accetta alleanze e vuole chiamare nuovamente alle urne il popolo per ottenere un sostanziale plebiscito, al fine di governare da solo, senza dover stringere alcun accordo. Un plebiscito di carattere cesarisrico, dunque, il tutto nella patria del concetto di democrazia: siamo arrivati a questo punto ma non abbiamo letto articoli in tal senso, o comunque troppo pochi, sulla stampa italiana.

In Spagna, dove sono state indette elezioni anticipate per il prossimo 23 luglio, è Sánchez a rischiare grosso, anche per via dello sgretolarsi di ogni possibile alleanza a sinistra, con l’esaurirsi dell’esperienza di Podemos e l’oggettiva fragilità di Sumar, la formazione capeggiata dalla brava ministra del Lavoro, Yolanda Díaz, la quale però non può garantire al PSOE il sostegno necessario per dar vita a un nuovo governo progressista. Sul versante opposto, invece, il Partido Popular non sembra farsi scrupoli di fronte all’idea di governare insieme ai franchisti di Vox, nei cui comizi e nelle cui manifestazioni si inneggia senza remore a Franco e al suo operato.
Dalla Turchia, a dire il vero, ci aspettavamo poco; fatto sta che la nuova affermazione di Erdoğan ci ha quanto meno deluso. Non che Kılıçdaroğlu sia un rivoluzionario, intendiamoci, ma l’idea che un paese cruciale per i rapporti fra Europa e Medio Oriente non riesca a liberarsi dal giogo di un soggetto che governa da vent’anni e che ormai ha sdoganato un metodo di governo autoritario, nel quale non c’è spazio per alcuna forma di dissenso, ci rattrista. Non solo: ancora una volta siamo costretti a riflettere sulla tragicità dei nostri presunti valori. Erdoğan, infatti, è lo stesso personaggio che paghiamo profumatamente ogni anno per tenersi i profughi che non vogliamo veder arrivare nei nostri paesi ed è lo stesso soggetto che stiamo blandendo affinché non opponga resistenza all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, chiedendo in cambio la fine di ogni tutela per i dissidenti curdi che da quelle parti avevano trovato rifugio. Ancora una volta, i nostri principî si dimostrano a geometria variabile, pronti a fermarsi sulla soglia della realpolitik e della convenienza del momento.
Infine, due parole bisogna spendere a proposito della Polonia, una nazione in cui persino un ultra-moderato come Tusk rischia di essere messo fuori gioco con accuse risibili, in cui la maggior parte dei diritti per cui diciamo di batterci viene calpestata allegramente ogni giorno ma contro cui è diventato praticamente impossibile esprimere una minima critica perché sta dimostrando un’assoluta fedeltà atlantica nel contesto del conflitto russo-ucraino. Questo siamo diventati: un continente che non esiste, un’espressione geografica, un insieme di staterelli in lotta fra loro, senza alcuna visione comune, capaci di tollerare per anni Orbán, salvo accorgersi all’improvviso che è illiberale nel momento in cui non si è uniformato alla condanna senza appello di Putin, con cui in effetti ha delle affinità, e di accettare oggi nuove forme di dispotismo, più o meno esplicite, in nome di una convenienza che non ci fa onore e, oltretutto, ci indebolisce nel contrasto a un personaggio disdicevole come il despota russo.
Del resto, siamo gli stessi che per vent’anni hanno mitizzato la “missione di pace” in Afghanistan, per poi dichiarare con liliale candore che si è trattato di un fallimento. E oggi siamo gli stessi che ipotizzano, non a torto, che Putin sfrutti a suo favore i nostri palesi cedimenti, la nostra stanchezza, la nostra crisi demografica, il nostro sconforto, il nostro disincanto e la nostra incapacità di difendere i capisaldi su cui si fondava un tempo il sogno che ora si sta trasformando in decadenza e, a tratti, in incubo. E bisognerà stare attenti adesso alla questione di Taiwan, sulla quale ci giochiamo una parte consistente del nostro domani. Ciò che bisognerebbe capire, a livello geo-politico, è che in un mondo interconnesso qual è senz’altro quello in cui viviamo non sarà la de-globalizzazione a salvarci; al contrario, il ritorno alle piccole patrie è, storicamente, l’acceleratore che conduce a guerre sanguinose. Se esiste ancora una sinistra, almeno in ambito europeo, deve quindi proporre una globalizzazione radicalmente diversa rispetto a quella cui abbiamo assistito finora, basata sul principio cardine del multipolarismo e della convivenza civile con tutti, senza nazioni egemoni, senza gendarmi del pianeta e senza la pretesa, assurda e perdente, di uno scontro di civiltà fra un Occidente in disarmo e una galassia dei BRICS in ascesa, potendo contare anche sul rancore anti-coloniale, e pertanto sul sostegno, dei troppi paesi che noi occidentali abbiamo sottomesso nel corso dei secoli precedenti. In poche parole, bisogna mandare in soffitta il Fukuyama della “fine della storia” perché qui non è finito proprio nulla e tutto ciò che stiamo vedendo, e che giustamente ci preoccupa, per non dire proprio che ci terrorizza, è frutto di una smisurata arroganza e di una drammatica sottovalutazione della traiettoria epocale con la quale siamo chiamati a confrontarci. Con meno di questo, la sinistra non ha più ragione di esistere. E non ha ragione di esistere neanche se rinuncia pregiudizialmente a dotarsi di un’ideologia, di una visione del mondo e di quelli che Berlinguer chiamava “pensieri lunghi”, che oggi bisogna saper riassumere in un tweet ma al tempo stesso declinare in un saggio che abbia una struttura e una consistenza, per poi trasformarli in un progetto politico che contemperi sia le prossime elezioni che le prossime generazioni. Per tutti questi ottimi motivi Henry Kissinger non è e non sarà mai il nostro punto di riferimento. Noi, infatti, a differenza sua, crediamo nella libertà di scelta, nell’autodeterminazione dei popoli e nella necessità di stare su questa Terra senza armarci gli uni contro gli altri e senza distruggere l’ecosistema. E non siamo degli illusi ma semplicemente delle persone che hanno capito che o sarà questo il nostro futuro o, purtroppo, l’umanità non avrà alcun futuro.

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