Miracoli visivi al femminile

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“Ada”, di Kira Kovalenko, Russia, 2021

La condizione femminile in una regione della Russia meridionale, l’Ossezia. Ada è vittima di un padre padrone, di un fratello amato ma che tende a soffocarla, di un ragazzo che la ama, ricambiato, ma che ostenta una certa prepotenza. Ada, che racconta se stessa e per questo anche la tragica Storia recente del suo paese, sembra accerchiata, assediata, la cinepresa si muove su di lei, sul suo volto, sul suo corpo, incessantemente, attraverso primi e primissimi piani che disegnano sofferenze e slanci vitali. Il tutto grazie ad una capacità filmica e registica da lasciare interdetti per bellezza e precisione. La Kovalenko si ispira al Bellocchio de “I pugni in tasca”, al suo maestro Sokurov per l’uso sapiente del colore, soprattutto per gli interni, indispensabile al racconto stesso, e sembra voler ricordare l’intensità dei tanti volti femminili del grande compianto Corso Salani. Il finale, tra un eccezionale jump-cut alla Godard, “Easy rider” di Dennis Hopper e il metacinema bergmaniano di “Persona”, chiude in maniera freudianamente realistica, senza regalare false speranze, una storia potente e dirompente come da anni non si vedeva.

 

“Happy hour”, di Ryusuke Hamaguchi, Giappone, 2015.

Quattro donne, quattro vite, quattro esistenze messe alla prova da un quotidiano non facile e da sentimenti che latitano dentro i confini sempre più labili della nostra contemporaneità. A metà strada tra la raffinetezza della messinscena dialogata di Eric Rohmer e l’incomunicabilità sommessamente esplicitata di Michelangelo Antonioni, il film di Hamaguchi ci accompagna dentro le pieghe, anche le più sottili e nascoste, dell’animo umano, fino a farci toccare con gli occhi tutte le possibili varianti in cui la realtà ci immerge, anche al di là della nostra volontà. Quello del regista giapponese è un gioco di rimandi visivi che parte dai corpi (vedi la splendida lunga sequenza in palestra degli esercizi, tutti orientali, di “allineamento” del nostro baricentro per l’acquisizione di un nuovo equilibrio mentale, che sa tanto del cinema “teatrale” di Jacques Rivette) per approdare ad uno sguardo cangiante sul mondo che ci circonda, sempre più imprendibile e sempre meno rassicurante, ma proprio per questo sempre più stimolante da raccontare per immagini. Talvolta, questo doppio binario narrativo arriva a dei livelli di intensità estetica e contenutistica così alti da farci capire, in maniera definitiva, il perchè, oggi, il grande cinema arrivi proprio da quelle parti.


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