Che cos’è la democrazia? Intervista a Norberto Bobbio

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Il 27 dicembre dl 1947 nasce “la più bella Costituzione del mondo”. In occasione del 75° anniversario, Articolo 21 vuole ricordare questa storica data pubblicando il testo integrale di un’intervista televisiva al filosofo della politica Norberto Bobbio registrata il 28 febbraio del 1985. L’intervista che ha come titolo “Che cos’è la democrazia?” è apparsa alcuni giorni fa anche sulla rivista “Democrazia futura”.

 

Professore Bobbio, se la democrazia fosse inflazionata nella realtà così come lo è come concetto probabilmente vivremmo in un mondo di uguaglianza universale; ma invece non è così. Si parla indistintamente di democrazia a proposito dell’Atene di Pericle, dei Soviet di Lenin; c’è la democrazia liberale, quella socialista, c’è la democrazia cristiana. Ecco, prima di addentrarci in questa discussione sulla democrazia possiamo dare una definizione minima ma precisa di questo termine?

Ritengo che non sia soltanto possibile dare una definizione minima della democrazia ma sia necessario perché se vogliamo metterci d’accordo, quando parliamo di democrazia, dobbiamo intenderla in un certo modo limitato, cioè attribuendo al concetto di democrazia alcuni caratteri specifici sui quali possiamo esser tutti d’accordo. Ora io ritengo che per dare una definizione minima di democrazia bisogna dare una definizione puramente e semplicemente procedurale, vale a dire definire la democrazia come un metodo per prendere decisioni collettive.
Si chiama gruppo democratico quel gruppo in cui valgono almeno due regole per prendere decisioni collettive: tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente; la decisione viene presa a maggioranza dopo una libera discussione. Queste sono le due regole in base alle quali a me pare che si possa parlare di democrazia nel senso minimo e ci si possa mettere facilmente d’accordo per dire dove c’è democrazia e dove non c’è democrazia.

Quindi non vi è differenza tra la decisione presa all’interno di un condominio e la decisione per approvare una legge dello Stato?

Ha detto benissimo! Le associazioni stabiliscono quali sono le regole in base alle quali si prendono decisioni che poi valgono per tutti gli aderenti. Anche se le decisioni vengono prese da pochi, da alcuni, anche da uno solo, l’importante è che quelle decisioni siano prese in base a quelle regole.

Stando a quello che lei dice, mi vien da pensare che per quanto nel mondo vi sia un certo numero di Stati democratici, forse neanche troppi, all’interno di questi Stati – penso agli apparati della produzione, dei servizi, alle caserme, a molte delle istituzioni – è difficile rintracciare il rispetto di queste due regole.

Sì, lei effettivamente ha ragione: qui stiamo parlando di democrazia politica. Difatti io ho considerato come una delle promesse non mantenute della democrazia proprio il fatto che la democrazia politica non si è estesa alla società e non si è trasformata in democrazia sociale. A rigore una società democratica dovrebbe essere democratica, cioè dovrebbe avere queste regole. Il funzionamento della democrazia nella maggior parte dei centri di potere, in realtà non è avvenuto. Qual è poi il centro di potere in cui dovrebbe avvenire quest’estensione delle regole democratiche: è la fabbrica! Ma all’interno della fabbrica, in realtà, non esiste un regime democratico perché le decisioni vengono prese da una parte sola; certo, dall’altra parte, gli operai, c’è la possibilità di un certo controllo sulle decisioni, ma le decisioni non vengono prese da tutte le parti che sono in gioco in quel centro di potere.

Quindi, lei pensa che sia auspicabile quest’autodeterminazione della propria vita lavorativa?

Io credo che questo sia l’ideale limite della democrazia. Però nello stesso tempo osservo che ci sono molti luoghi in cui le regole della democrazia sono state istituite, ma non vengono osservate.

Per esempio?

Per esempio all’interno dei partiti. I partiti sono associazioni che hanno delle regole democratiche per le decisioni collettive. Ma sappiamo benissimo che la democrazia all’interno dei partiti è molto scarsa, è molto limitata, e direi la stessa cosa per i sindacati.

Avendo parlato di democrazia, vorrei cercare di cogliere i nessi fra democrazia e liberalismo. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il mondo occidentale, essendosi contrapposto in blocco, e irriducibilmente, al mondo dell’Est, al mondo dei Soviet, ha fatto di tutta l’erba un fascio, per cui tutte le ideologie che non fossero comuniste, sono apparse omologate tra loro dal comune nemico sotto il segno della democrazia. Eppure noi sappiamo, ad esempio, che liberalismo e democrazia non sempre hanno avuto un buon rapporto. Possiamo provare a stabilire queste differenze storiche e ideali fra il liberalismo e la democrazia?

Storicamente, liberalismo e democrazia sono stati spesso contrapposti. Soprattutto quando si parlava di democrazia non si dava la definizione formale che le ho enunciato prima. Si dava una definizione, non formale o, meglio ancora, procedurale di democrazia: una definizione contenutistica, sostanziale: cioè per democrazia s’intendeva una società egualitaria o perlomeno più egualitaria delle società precedenti. Certo, se s’intende per democrazia una società al massimo egualitaria c’è un contrasto fra liberalismo e democrazia; però se noi partiamo dalla definizione procedurale di democrazia ci rendiamo conto che la democrazia, quella che oggi noi intendiamo per democrazia non è altro che la naturale prosecuzione del liberalismo perché il liberalismo ha affermato alcuni diritti fondamentali quali i diritti di libertà e i cosiddetti diritti civili: il diritto di libertà di associazione, di riunione, di stampa, di opinione, di religione eccetera. Con la democrazia si è affermato un altro diritto fondamentale: il diritto politico, vale a dire il diritto di prendere parte alle decisioni collettive. All’inizio c’erano gli Stati liberali che non erano democratici perché prendevano parte alle decisioni collettive soltanto alcuni, generalmente gli abbienti; c’erano delle limitazioni di voto molto gravi per cui votava soltanto una piccola parte dei cittadini, il due, tre per cento dei cittadini; poi via via è avvenuta l’estensione del suffragio. Oggi negli Stati che noi chiamiamo democratici c’è il suffragio universale maschile e femminile, vale a dire c’è stata l’estensione del diritto politico a tutti. Questa estensione non è stata altro che una conseguenza della estensione di alcuni diritti fondamentali che erano stati richiesti dal liberalismo. Da questo punto di vista dico che se noi intendiamo la democrazia dal punto di vista procedurale o formale, come la intendo io, la democrazia attuale è la prosecuzione del liberalismo; non c’è contrasto.

Questo vuol dire che il problema della democrazia sostanziale è stato, in qualche modo, delegato al socialismo?

Beh, è stato delegato… Sì, certamente l’affermazione della democrazia sostanziale è stata fatta inizialmente dai democratici, dai democratici radicali; tant’è vero che, come ho detto, all’inizio con il termine democrazia s’intendeva una società più egualitaria. Però non c’è dubbio che la democrazia sostanziale è uno dei grandi temi del socialismo. Si può definire il socialismo come quella corrente di pensiero e di idee che ha cercato di riempire la democrazia, questa scatola vuota, puramente formale, di alcuni contenuti come l’uguaglianza, un’eguaglianza non soltanto giuridica ma anche di fatto, sociale ed economica. E credo che oggi una certa tendenza verso un maggiore egualitarismo, vale a dire una maggiore uguaglianza di tutti in molte cose – non dico in tutte – ci sia, su questo non c’è dubbio. Questa è una delle caratteristiche delle società contemporanee ed è indubbiamente un modo per dare maggiore sostanza, maggiore contenuto ai regimi democratici.
A mio parere, uno dei criteri in base ai quali si debbono distribuire i beni è anche il merito: non dico che sia sempre e soltanto il merito, ma anche il merito. Ci sono certamente delle situazioni in cui non si può applicare altro che il principio del merito e della distribuzione secondo il merito. Per esempio, nella scuola! Nella scuola, lei capisce, non ha senso dare un voto uguale a tutti, non avrebbe nessun senso, che scuola sarebbe? Si dà secondo il merito. Mentre, di fronte a coloro che sono emarginati dalla società, il criterio non è certo quello del merito ma è quello del bisogno, si dà secondo il bisogno; non si sta a giudicare se quel povero vecchio ha più meriti di quell’altro. Si tratta di dare secondo il bisogno, cioè di dare di più a chi ha più bisogno. Questi sono i due criteri fondamentali: il merito e il bisogno. Del resto lo stesso Marx nella famosa Critica al programma di Gotha, afferma: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Parlando dei poveri e dei loro bisogni, ha affermato che in questo caso non valgono più le questioni di merito. A questo proposito, vorrei farle una domanda sulla crisi dello Stato assistenziale. Come giudica questo abbassamento della soglia del livello di assistenza da parte degli Stati per cui ciò che fino a ieri era un diritto, è tornato ad essere una concessione?

Io non credo che si possa adesso parlare di abbassamento di livello di assistenza: lo Stato che rende dei servizi non è ancora stato smantellato. Se vengono sollevati dei dubbi non è tanto per quel che riguarda i servizi e la natura dei servizi, ma per il modo in cui lo Stato rende questi servizi. Si ritiene, cioè, che lo stato non sia in grado di prestare questi servizi come pretenderebbero i cittadini. È in crisi l’idea del servizio pubblico esercitato dallo Stato, in quanto si ritiene che il privato, che le agenzie private, possano essere in grado, più e meglio dello stato di soddisfare richieste della gente. Quindi se vogliamo riassumere con una brevissima formula un’esigenza che si sta avanzando oggi da varie parti, e non solo da destra, possiamo formulare quest’esigenza con due parole: “meno Stato”.
Nel secolo scorso la democrazia e il socialismo hanno svolto la loro politica all’insegna della formula opposta: più Stato, sempre più Stato. Oggi siamo arrivati probabilmente a un massimo di estensione dello Stato per cui si ritiene che sia necessario, che sia utile, che sia conveniente alla società tornare indietro. Più Stato – meno Stato: questa è la grande contrapposizione di oggi.

Ma lei crede davvero che i privati, che per loro natura difendono interessi particolari, possano surrogare le funzioni di uno Stato che per sua natura dovrebbe difendere l’interesse generale?

Beh certo, si tratta appunto di vedere quali sono i casi in cui i privati possono surrogare lo Stato. Non è detto che lo possano fare, che lo possano fare in ogni caso, probabilmente per quel che riguarda la scuola, non lo possono fare.

Quindi in definitiva lei è favorevole al “meno Stato” piuttosto che al “più Stato”…

No, non posso dire di esser favorevole al “meno Stato”: ritengo che questo sia un grosso problema che noi dobbiamo porci e che anche le sinistre sarebbe bene che si ponessero più chiaramente di quello che si è posto sinora.

Vorrei muovere un’obiezione a quello che lei diceva poco fa a proposito del rapporto fra la sinistra di matrice socialista e lo Stato. Ad esempio non credo che i socialisti dell’Ottocento e lo stesso Marx avessero una concezione dello Stato sostanzialmente diversa da quella di matrice liberale. Voglio dire che, sebbene per motivi diversi, l’antistatalismo sia comune ai marxisti, ai socialisti, agli anarchici e ai liberali.

Beh, la collettivizzazione dei mezzi di produzione, che è uno dei punti fermi di tutto il socialismo, non soltanto del socialismo marxista, cioè l’eliminazione della proprietà privata, la sostituzione della proprietà privata con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, conduce indubbiamente a forme di monopolio statale delle attività economiche.

Ho accennato alla comune matrice antistatalista delle principali correnti di pensiero politico dell’Ottocento per capire se, almeno nel caso dell’Italia, questo retroterra teorico non abbia prodotto uno scarso senso dello Stato, dei doveri verso la sfera pubblica.

Ma sa, io credo che l’espressione “senso dello Stato” sia un’espressione vaga, generica. Ci si richiama al senso dello Stato quando non si riesce a trovare una spiegazione di quello che avviene. Io non credo che ci siano mai state delle classi dirigenti che abbiano anteposto l’interesse collettivo all’interesse del proprio gruppo. Ora che cos’è un interesse nazionale, cos’è l’interesse collettivo, cos’è il bene pubblico? Lei capisce che è estremamente difficile definirlo.
In genere coloro che comandano, quelli che hanno le leve del potere, intendono per interesse nazionale, interesse collettivo, l’interesse preminente e prevalente del loro gruppo: questo è sempre stato. Anche nello Stato democratico ci sono gruppi d’interesse: vi sono i partiti, vi è la maggioranza che è composta di certi partiti ad esclusione di altri. Quindi quello che noi chiamiamo l’interesse nazionale di una società democratica può darsi benissimo che sia l’interesse di quel partito, di quel gruppo di partiti. Sempre meglio che l’interesse di pochi o gli interessi di uno. Però non possiamo essere sicuri che questo sia veramente l’interesse nazionale.

Entriamo ora nel merito della democrazia sempre facendo riferimento a quella definizione formale che lei ha dato all’inizio: “la democrazia è una forma di governo fondata sostanzialmente sulla rappresentanza”. Cioè ciascun cittadino ha diritto a un voto e questo voto è, per così dire, ambivalente; da una parte si delega qualcuno a rappresentarci rispetto ai nostri interessi di privati cittadini; dall’altra si delega qualcuno a rappresentare la nazione, indipendentemente dai nostri interessi personali o corporativi. Proviamo a sciogliere questo dilemma.

Oggi è molto, molto difficile distinguere queste due forme di rappresentanza. Molti rappresentanti politici, vale a dire deputati membri di un parlamento, in realtà nonostante il divieto di mandato imperativo rappresentano degli interessi; hanno spesso un mandato vincolato dal partito, un mandato tanto vincolato che se non eseguono le direttive del partito probabilmente vengono espulsi. La questione che si fa in questi giorni in Italia così accesa sul voto segreto e sul voto palese (febbraio 1985), dipende proprio dal fatto che la maggior parte dei deputati sono vincolati e i partiti ritengono che debbano essere vincolati, tanto è vero che non vogliono il voto segreto che permetterebbe a loro di svincolarsi dalle direttive del partito. Quindi, i deputati sono vincolati a interessi specifici. È vero che il partito, a rigore, non è una corporazione, non sono i ceti di una volta che avevano interessi molto precisi, determinati, concreti. Il partito, a rigore ogni partito, dovrebbe rappresentare vari interessi, tanto è vero che si dice che la funzione dei partiti è quella di aggregare gli interessi; però in un sistema politico come quello italiano dove ci sono tanti partiti c’è il rischio che ognuno dei partiti diventi a poco a poco un gruppo di interesse. C’è il rischio che il partito si trasformi in gruppo d’interesse e allora in questo caso lei capisce benissimo che il rappresentante politico diventa un rappresentante d’interessi. Mentre il Parlamento è definito attraverso la rappresentanza politica, i sindacati vengono definiti attraverso la rappresentanza dell’interesse, e su questo non c’è nessun dubbio: un rappresentante sindacale non deve fare gli interessi della nazione, non deve fare gli interessi collettivi, non deve perseguire il bene comune: deve fare l’interesse dei lavoratori, di quei lavoratori che rappresenta. Ci sono tante categorie di lavoratori, ogni categoria ha i suoi delegati, i delegati di fabbrica appunto. A rigore siccome questa è una rappresentanza interessi, dovrebbe essere una rappresentanza vincolata.

Vale a dire che il sindacalista che agisce come se avesse un mandato libero….. tradisce il suo mandato…

Ecco, in questo caso la rappresentanza di interessi diventa una rappresentanza politica, mentre abbiamo visto prima che la rappresentanza politica spesso diventa rappresentanza d’interessi.

Qual è la conclusione di questo discorso?

La conclusione è che è molto difficile una distinzione. Quella distinzione che sembrava così netta fra la rappresentanza degli interessi e la rappresentanza politica all’inizio della storia della democrazia rappresentativa, in realtà è molto meno netta di quello che si credeva.

Professore, sempre a proposito di questa ambivalenza tra la rappresentanza degli interessi particolari e la rappresentanza politica, ci troviamo di fronte alla possibile, talvolta frequente, degenerazione del divieto di mandato imperativo per cui, una volta eletti alcuni parlamentari piuttosto che rappresentare la nazione, perseguono gli interessi dei propri elettori. Il rischio è che si venga a creare una sorta di borsa della politica. Possiamo parlare di questa stortura?

Sì, sì, certo. Lei sa che si usa ormai frequentemente l’espressione “mercato politico”. L’elettore dà all’eletto il voto, lo sostiene, quindi gli consente di avere una certa quota di potere che è tanto più grande quanti più numerosi sono i voti; l’eligendo, quello che deve farsi eleggere, promette in cambio del voto alcuni beni che, generalmente, vengono dati attraverso le risorse pubbliche di cui l’uomo politico dispone: può essere la pensione, una facilitazione fiscale, il posto di impiegato o di bidello.

Oppure la leggina che consente…..

Qualche volta anche la leggina. Questo rapporto ha ormai un nome abbastanza noto, si chiama “rapporto clientelare”. È un vero e proprio “do ut des”, scambio; solo che non è uno scambio economico ma è uno scambio di beni che sono nel mercato politico. Questa è una delle caratteristiche della democrazia e ritengo che sia in un certo senso inevitabile.

Non pensa che un correttivo potrebbe essere quello che alcuni partiti mettono in opera: decidono le persone da candidare e sostenere, ma poi il candidato non può farsi una propaganda personale?

Infatti, questi partiti ottengono voti per ragioni diverse da quelle che caratterizzano il voto di opinione e il voto di scambio. I politologi parlano in questo caso di voto di appartenenza, vale a dire l’elettore vota quel determinato partito perché si considera in qualche modo inglobato in esso per un principio di solidarietà. In questo caso, l’inconveniente è che l’elettore finisce per votare quel partito perché appartiene a quel partito, a quel gruppo, indipendentemente dalle politiche del partito. Può succedere che quel partito cambi linea politica e, tuttavia, chi gli dà il voto continua a votarlo lo stesso. Quindi c’è anche nel voto di appartenenza qualche inconveniente, per cui in verità la democrazia dovrebbe fondarsi esclusivamente sul voto di opinione.

Vorrei ritornare un attimo sulla questione del voto segreto e del voto palese.
Lei ha, in qualche modo, spezzato una lancia a favore del voto segreto che tutela l’autonomia del deputato nei confronti del suo partito. Però può accadere che degli interessi di parte, sordidi, che minano la democrazia – è il caso di Gelli e dei parlamentari che controllava – riescano a raggiungere il loro scopo proprio grazie alla segretezza del voto. Inoltre, l’elettore non è messo in condizione di verificare se il suo voto viene utilizzato bene o male.

Sì, ma guardi che io non ho spezzato una lancia, ho semplicemente messo in evidenza che la richiesta del voto palese rischia di trasformare la rappresentanza politica in rappresentanza di interessi. Ma io non ho spezzato una lancia! Ho molti dubbi se valga la pena continuare a mantenere il voto segreto come avviene in Italia, perché a favore del voto palese c’è il fatto che è bene che ciascuno si assuma le proprie responsabilità in pubblico, come lei ha detto.
Il deputato deve avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità in pubblico, deve prendere decisioni pubbliche e quindi deve prenderle in pubblico, in modo che gli elettori sappiano come si è comportato. Quindi io non sono affatto contrario ad una estensione del voto palese rispetto al voto segreto.

Vorrei porle un’altra domanda. Negli ultimi dieci anni, (1975 -1985) a fronte della crisi delle ideologie, ha preso un po’ il sopravvento, per converso, un certo spirito di razionalizzazione della politica; in altre parole: cerchiamo di razionalizzare lo stato di cose presenti senza troppi grilli per la testa e senza troppe fumisterie ideologiche. A mio parere, tutto questo ha portato ad una forma d’impoverimento della politica, nel senso che è prevalso un certo navigare a vista, sono prevalse le politiche di piccolo cabotaggio. Non pensa che nella politica ci debba essere un “dover essere”, anche senza chiamarlo “ideologia”, cioè un guardare lontano e storicamente e non soltanto al dopodomani?

Ci dev’essere l’uno e l’altro. Programma minimo e Programma massimo, si diceva una volta.

Ma può non esistere solo un programma minimo?

Lei capisce che oggi, in una società complessa, ci sono molti problemi che devono essere risolti di volta in volta. Io credo che oggi nessuna classe politica può fare a meno di questa politica contingente, della congiuntura. Però si pone certamente il problema degli scopi ultimi. Soprattutto i partiti di sinistra, cioè i partiti che si considerano di sinistra, cioè i partiti riformatori, devono avere delle mete ideali. Perché è solo attraverso questo criterio delle mete ideali che la libertà, l’uguaglianza e il benessere possono concretizzarsi.
Quali sono le ragioni per cui lei dice che una legge è una legge di riforma? Una riforma è tale perché, in qualche modo, trasforma la società presente in quanto è ispirata ad un valore importante, un valore ideale. Faccio l’esempio della legge che ha liberalizzato i manicomi. Possiamo dire che è stata una riforma buona o cattiva ma certamente è stata una riforma proprio perché era ispirata ad un valore fondamentale che è quello della libertà, della liberazione, della liberazione anche di coloro che nella storia dell’umanità sono stati considerati come coloro che non potevano essere liberati, che non avevano diritto di essere liberati. Quindi riconoscere a queste persone il diritto di esser liberi come gli altri: questa è una grande trasformazione che si ispira ad un valore fondamentale. Per questo si può dire che la 180 è una legge di riforma.

Quindi possiamo dire che non è corretto parlare di tramonto delle ideologie ma soltanto di crisi di determinate ideologie, massimalistiche o altro, e che non si può fare la politica senza avere dei grandi ideali?

No, non si può, assolutamente non si può; soprattutto i partiti di sinistra! I partiti di sinistra si distinguono di solito dai partiti di destra e dai partiti conservatori proprio perché vogliono trasformare la società, ma questa trasformazione bisogna farla in nome di ideali che la giustifichino.
La differenza fra il conservatore e il riformatore è che il conservatore non ha bisogno di giustificare la conservazione, invece colui che vuole riformare la società deve motivare perché la vuole cambiare; e può giustificare la riforma solo ricorrendo a dei grandi principi. Ecco, questa è Giustizia e Libertà.

Questo vuol dire che l’uomo politico di sinistra deve avere delle qualità ben superiori a quelle del conservatore che, in fondo, deve semplicemente amministrare ciò che c’è.

Beh, (sorride) insomma adesso non stiamo a sottilizzare su queste differenze. Io ritengo che il politico di sinistra deve essere in qualche modo ispirato da ideali, mentre il politico di destra basta che sia ispirato da interessi: ecco la differenza.

Professore, a proposito di Machiavelli Gramsci dice: “Il limite e l’angustia del Machiavelli consistono solo nell’essere egli stato una persona privata, uno scrittore, e non il capo di uno Stato o di un esercito che pure è una singola persona ma avente a sua diposizione le forze di uno stato o di un esercito e non solo eserciti di parole”. Lei si trova, rispetto alla politica, in una posizione analoga a quella di Machiavelli pur essendo un senatore a vita. A che possano servire i suoi eserciti di parole?

Sono piuttosto pessimista sul rapporto fra teoria e pratica. La politica e la cultura, vale a dire la battaglia, l’azione politica, e le idee corrono spesso su due piani paralleli che non si incontrano mai, o almeno si incontrano soltanto in rari momenti che sono i momenti rivoluzionari, i momenti della trasformazione radicale, per cui la cultura e le idee effettivamente influiscono, e gli uomini di cultura si impegnano anche politicamente e assumono direttamente delle responsabilità. Ma nei momenti, come dire, tranquilli della storia la politica fa una strada diversa da quella della cultura.


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