Buio su Mosca. Il dissenso ora è davvero solo

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Buio su Mosca. Il dissenso ora è davvero solo

Elisa Marincola

 

Non c’è più informazione su cosa avviene in Russia. Praticamente tutti i grandi media internazionali hanno ritirato gli inviati (e può essere anche comprensibile essendo molti di loro in zone a rischio) ma, cosa molto più grave, hanno nei fatti chiuso gli uffici di corrispondenza, presidi essenziali per conoscere un Paese (grande come un continente, praticamente un mondo) proprio per la loro permanenza e perché si avvalgono di una forma di protezione diplomatica, sia pure tacita.

Anche l’Italia, a partire dal Servizio pubblico, ma chiude persino l’Ansa, l’agenzia nazionale che è punto di riferimento per testate medio piccole che non possono permettersi di mandare inviati, tanto meno avere un corrispondente fisso. E punto di riferimento anche per tanto pubblico che si fida ancora dei suoi notiziari perché sa che dietro c’è chi le notizie le verifica sul posto, consumando le scarpe. O almeno dovrebbe.

La motivazione ufficiale è la recentissima legge putiniana che prevede pesanti multe e condanne fino a 15 anni di carcere per chi diffonde “fake news” sul conflitto, che è persino vietato chiamare “guerra”. Una legge che ancora non siamo certi che valga anche per i giornalisti stranieri che parlano verso l’esterno.

La Rai, come anche l’Ansa, informa che le notizie su quanto accade nella Federazione russa “verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell’azienda in servizio in paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia”.

Chiunque abbia un minimo di conoscenza della geografia dell’area e sia consapevole di come funziona il lavoro in una redazione non può considerare seria una informazione così prodotta. Pensiamo davvero che scrivere magari dalle repubbliche baltiche dove non ci sono corrispondenti (l’alternativa è la Bielorussia che non è proprio patria della democrazia) su quello che accade a Mosca o San Pietroburgo sia attendibile? O dalla stessa Berlino, che non è proprio un “paese confinante”, come non lo è la Polonia, dove si affollano gli inviati di mezzo mondo per l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi. Le distanze sono inimmaginabili per noi, per non parlare delle relazioni tra quei paesi e la “Federazione russa”.

Si parla di “pluralità di fonti”: quali? I presidi militari della Nato (leggi Usa), ormai dislocati ai margini dei paesi “confinanti” e che fanno da filtro per aggiornare gli inviati che si trovano a passare di lì. Lo abbiamo visto in diversi servizi “dal fronte”. Se saremo fortunati arriveranno i numeri e le relative interviste dell’Unhcr, su questa marea di fuggitivi, che qualcuno vorrebbe pure separare tra veri o finti, bianchi e neri.

Sembra piuttosto un modo per sostituire al lavoro sul campo i redazionali che verranno prodotti con informazioni di terza mano. Terza mano di chi? Sostituiamo la propaganda all’informazione, i famosi pastoni redazionali sulla base delle veline ufficiali al racconto dalle strade, dalle piazze russe dove in migliaia vengono brutalmente arrestati eppure continuano a protestare. O pensiamo davvero che potremo fare una telefonata dalle nostre comode e sicure redazioni “centrali” e farci raccontare cosa accade e cosa pensano i russi, magari chiedendo anche nome e cognome? Sappiamo tutti com’è complesso e attraverso quali canali protetti (mai abbastanza) si prova a mantenere i contatti con quanti vivono sotto regimi così oppressivi. L’abbiamo di recente sperimentato con il regime di Al Sisi in Egitto che ha barbaramente ucciso Giulio Regeni e tenuto in carcere, da ostaggio, Patrick Zaki, ancora non definitivamente libero. Con migliaia e migliaia di scomparsi, e arresti anche tra i corrispondenti esteri. Arresti praticati anche in Turchia dall’altro baluardo della sicurezza europea Erdogan. Ma nessuno si è sognato di ritirare i propri corrispondenti.

Non li abbiamo ritirati neanche durante le due guerre del Golfo: nessuno dimentica la lunga diretta di Peter Arnett per Cnn dal tetto dell’albergo a Baghdad mentre nella notte cadevano le bombe americane, nel 1992. O la diretta di Giovanna Botteri, la prima inviata occidentale ad aver avvistato l’arrivo delle truppe americane sempre nella capitale irachena ancora, appunto, terreno di guerra. O dalla Serbia nel ‘99 mentre le NOSTRE bombe cadevano su Belgrado e il corrispondente Ennio Remondino le raccontava in diretta. Pensavamo che il giornalismo embedded fosse una deriva pericolosa. Ma ora il giornalismo è stato proprio rimosso! Siamo alla censura assoluta su chi è sul posto e potrebbe far voce anche all’opposizione russa. Un delirio bellicistico che chiude definitivamente la parabola del “braccio legato dietro la schiena”, la stampa appunto, che in Vietnam aveva svelato il massacro di My Lai, mostrato agli americani attoniti le migliaia di soldati sacrificati a una strategia politica insensata, costringendo infine Washington al ritiro.  Il primo colpo arrivò nella prima guerra del Golfo con il cosiddetto “News Management” ideato dal generale Schwarzkopf su mandato di George Bush Senior. Nasce il giornalismo embedded e la produzione di vere e propri flussi informativi dalla macchina propagandistica militare.

C’è chi amaramente commenta che la professione è cambiata. Si, è cambiata. Tanto che non suscita più indignazione questa saracinesca chiusa su un mondo che già abbiamo deciso di non voler conoscere bloccando Russia Today e Sputnik in Europa. Era disinformazione e lo sappiamo. Ma allora ci sarebbero molte testate nostrane e anche in giro per l’Europa da chiudere. Ma questa decisione che riguarda tutti noi (non c’è più l’Ansa a Mosca!) è anche peggiore. I giornalisti stranieri, proprio nei paesi retti da regimi anche feroci, rimanevano l’unico canale per far sapere fuori che cosa accade alla popolazione, non a divulgare veline, come commenta qualcuno (forse l’ennesima frecciata al bravissimo Marc Innaro che ha il difetto di raccontare il contesto e non lasciare le notizie orfane, come raccomandava Roberto Morrione), ma piuttosto denunciare gli abusi e raccogliere le poche voci di dissenso che comunque ci sono e che, se non trovano un minimo di rilancio all’estero, saranno ancora più sole e vulnerabili.

Altro che illuminare le periferie dimenticate! Alziamo un muro di ignoranza e autocensura e ci sarà chi, un giorno, ringrazierà per aver silenziato il male che c’è oltrecortina. Pardon, oltre confine.

Certo, è giusto fare i conti anche con le preoccupazioni dei colleghi che con il rischio delle ritorsioni putiniane dovrebbero convivere, ci mancherebbe. Allora però ritiriamo anche tutti gli inviati in teatri di guerra, lì si rischia la vita, non solo la libertà. Cinicamente ci sarebbe da chiedersi se le immagini di distruzioni e morte non siano più premianti in termini di contatti e di audience delle cronache da un Paese chiuso sempre più in se stesso che ci tiene in scacco con la leva del gas e delle materie prime.

Ma dove sono finite le nostre diplomazie che pure a Mosca mi risultano ancora presenti. Sta a loro trattare per garantire la vera prima linea delle nostre democrazie: l’informazione, “Press” un tempo rappresentava un lasciapassare un po’ per tutti gli schieramenti. Ora è una parola da cancellare anche in patria, non sia mai che attiri qualche proiettile che ha perso la retta via.


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