La rabbia, le piazze, il fascismo

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Cosa c’è dietro tutte questa rabbia che pervade il Paese? Un Paese, sosteneva Aldo Moro, “dalle passioni forti e dalle istituzioni fragili”, la cui fatica esistenziale si sta palesando in questi giorni in cui siamo chiamati a fare i conti con un nemico che purtroppo riaffiora ciclicamente come un fiume carsico di odio, pronto a devastare il tessuto sociale della Nazione. Cosa c’è, dunque, dietro queste tensioni che ricordano, in parte, il fenomeno dei gilet gialli francesi, con l’aggiunta di una forte componente fascista ed eversiva che in Francia, pur squassata dal lepenismo e dal rossobrunismo arrembanti, la peculiare storia di quello stato riesce in qualche modo a contenere?
Sgombriamo il campo da ogni equivoco: con i fascisti non si tratta e non si discute. Il fascismo è contrario allo spirito della Costituzone, inaccettabile e fuorilegge, non può avere sedi né rappresentanza politica, va trattato per ciò che è, ossia un reato, e contrastato col massimo vigore. Aggiungiamo che l’assalto squadrista alla CGIL, la messa sotto assedio del centro di Roma per ore, la violenza ferina mostrata all’indirizzo delle forze dell’ordine e le oggettive difficoltà di queste ultime nel contenere una manifestazione trasformatasi ben presto in altro, degenerata in barbarie e capace di minare alle fondamenta i principî su cui si basa lo Stato democratico, evidenziano una volta di più il collasso complessivo del nostro sistema-Paese.
Tutto ciò premesso, non c’è dubbio che ad alimentare la rabbia popolare, oltre alla povertà indotta dalla pandemia e dalle sue conseguenze nonché dalle tre grandi crisi succedutesi negli ultimi tredici anni, oltre alla propaganda anti-scientifica e intollerabile cui assistiamo da anni, ben prima che esplodesse la pandemia, non c’è dubbio che in parte c’entri anche il fatto che da una decina danni a questa parte i cittadini si sentano espropriati del loro diritto a scegliere da chi essere governati. Se a ciò aggiungiamo che è dal 2006 che non ci è più concessa la possibilità di decidere chi mandare in Parlamento, ecco che abbiamo di fronte il quadro di un degrado democratico e istituzionale senza precedenti.
Spiace dirlo, ma il Partito Democratico non può commettere lo stesso errore che commise dieci anni fa, quando si pose come cardine del montismo, accettandone acriticamente tutta la linea di distruzione sociale, senza rendersi conto della marea che montava nel Paese. Non può farlo anche perché pure l’argine sgangherato ma civile dei 5 Stelle ormai è saltato e quella furia o la si contiene nell’alveo delle forze democratiche o inevitabilmente smotta verso destra. E qui sarebbe opportuno riflettere sul fatto che la divisione fra destra e sinistra, per me sacrosanta, anzi basilare per una corretta dialettica democratica, è ormai definitivamente saltata. Oggi la polarizzazione è fra chi ha e chi non ha, fra l’un per cento dei super ricchi e il novantanove per cento della popolazione che in molti casi arranca, fra chi è dentro e chi è fuori, fra chi ha determinate garanzie e chi non ne ha nessuna. Guai, quindi, a pensare che togliendo i diritti a qualcuno li sia dia a qualcun altro: su quest’aberrazione hanno proliferano tutti i populismi di sistema, a cominciare da quello che ha imposto l’abolizione dell’articolo 18, lasciando milioni di persone senza tutele e in balia di un mondo del lavoro trasformatosi in una giungla. Il riferimento a quella vicenda, tuttavia, non è casuale, come non è casuale, ahinoi, l’assalto fascista al principale sindacato italiano, proprio come un secolo fa, quando il latifondo e una parte del mondo industriale coprì e di fatto sostenne le violenze squadriste nei confronti dell’organizzazione dei lavoratori che metteva in discussione, anche sulla scia della Rivoluzione d’ottobre, lo stato delle cose, avanzando la richiesta di maggiori diritti, tutele e dignità per lavoratori e lavoratrici.
Attenzione: è trascorso un secolo ma la questione è sempre la stessa. Anche all’epoca c’era stata una pandemia, la Spagnola, non meno devastante del Covid, e la crisi economica dell’ultimo decennio non è stata tanto meno feroce del conflitto mondiale che decimò i ventenni di allora. Quanto al fascismo, non nacque per caso, da un giorno all’altro: fu il frutto di un lungo processo di dissoluzione dello Stato liberale, inefficiente, macchinoso, escludente e disposto a suicidarsi in nome di un affidamento all’uomo forte del tempo che seppe intercettare il rancore sordo di un popolo ridotto in ginocchio e che si sentiva defraudato dai trattati internazionali che fecero seguito alla guerra.
Il 1921, se vogliamo, è un anno cardine, con gli attacchi alle camere del lavoro e ai braccianti, la repressione feroce nelle fabbriche, la scissione del Partito Socialista, la nascita del Partito Comunista a Livorno e i silenzi di troppi di fronte al male che saliva indisturbato. Furono pochi gli intellettuali che denunciarono, spesso a costo della vita, ciò che stava accadendo: su tutti Gobetti e Matteotti, poi Antonio Gramsci, infine Pertini, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Pietro Nenni e altri ancora, costretti a pagare un prezzo altissimo per difendere le proprie idee.
Evitiamo paragoni arditi, evitiamo di terrorizzare chi legge, ma rendiamoci conto che non esiste un’opinione pubblica con una visione del mondo chiara e definita. Esiste, per lo più, specie in assenza di forti tensioni ideologiche e ideali, una popolazione che cerca di trovare un approdo alla propria vita e che può incanalare il proprio malcontento in un senso o nell’altro. Anche per questo è stato un errore drammatico indebolire il Parlamento, tagliarlo, eliminare il finanziamento pubblico ai partiti, attaccare i corpi intermedi, elogiare la disintermediazione, procedere a colpi di decreti legge e voti di fiducia, canguri e altre aberrazioni, sempre in nome di una velocità futurista che ricorda tanto il marinettismo e il dannunzianesimo di un secolo fa, quando non si seppe democratizzare la rivoluzione industriale dell’epoca e si acuì lo scontro fra industriali e salariati. È stato un errore procedere al grido di “noi tireremo dritto” e “non ci ferma nessuno”, capisaldi del fascismo involontario che poi, in altre mani, si trasforma in tragedia. È stato un errore fiaccare le resistenze dei sindacati perché la CGIL è stata attaccata e vilipesa anche perché gli assalitori sapevano che era stata lasciata da sola a combattere nella trincea del lavoro e dei diritti.
Sabato sarò in piazza per portare un corpo in più nell’argine democratico che tutti insieme siamo chiamati a costruire. Ma non basterà una manifestazione, per quanto partecipata e bellissima, a cambiare il corso della storia. Perché questo avvenga è necessario invertire la rotta, rivedere il paradigma economico e sociale, introdurre un salario minimo adeguato, rimettere la persona al centro del processo di sviluppo, ridurre il divario fra chi ha troppo e chi niente, redistribuire la ricchezza e accantonare il feticcio del PIL perché davvero di pianeta ne abbiamo uno solo e ormai non ce la fa più a resistere alla nostra pretesa di una crescita indiscriminata e folle. Con meno di questo, la comprensibile rabbia degli esclusi non potrà che essere strumentalizzata da chi non aspetta altro per attuare un disegno eversivo e deleterio per il nostro stare insieme

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