Dei ritorni e degli addii. Già romanzo, sugli schermi “L’arminuta”. Ed è subito film

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Storia di solitudine, di abbandono, di mistero, di iniziazione, “L’arminuta”, dal romanzo di Donatella Di Pietrantonio, pubblicato nel 2017, Premio Campiello, Premio Napoli, Premio Segafredo Zanetti, è ora un film che riesce a coinvolgere, puntando sulla grazia della protagonista adolescente e sul tema universale e straziante del paradiso perduto. Il topic di fondo è reso cinematograficamente dal taglio intimistico delle inquadrature, fitte di sguardi e silenzi, nella delicata regia di Giuseppe Bonito, alla sua terza opera dopo “Pulce non c’è” premiato alla Festa del Cinema di Roma e Ciak d’oro nel 2013, e “Figli”. Nel buio della sala già nell’incipit si impone sullo schermo lo sguardo smarrito della fulva protagonista tredicenne, affidata al fresco talento di Sofia Fiore. Lei è l’arminuta, in dialetto abruzzese ritornata, nel senso di restituita. Siamo dalla sua parte fin dalla prima scena. Depositata come un pacco postale da un uomo  accigliato e silenzioso, fino a quel momento creduto il padre, con distacco e una frase asciutta “Questa è la tua vera famiglia…” questa ragazzina dai capelli rossi, elegante, graziosa, viene traumaticamente strappata alla sua vita comoda di taglio borghese, ai suoi affetti, alla sua spensieratezza, per piombare nella brutalità di una famiglia sfiancata dalle fatiche, dalle gravidanze, dalla povertà, dall’ignoranza: sono i “vinti” degli anni ’70, fuori dal taglio epico dei Malavoglia verghiani. L’avevano ceduta in fasce a una coppia di parenti agiati senza figli. Lei non sapeva nulla.

Due mondi si contrappongono. L’ago della bilancia è questa minuta figurina di cui non sarà mai pronunciato il nome. La ricerca di un’identità, l’appartenenza, la scoperta delle radici scorrono sui suoi lineamenti delicati, tra i lunghi, ramati, corposi capelli; esse si ergono nello squallore della casa natia a cui è ritornata contro la sua volontà, dopo ben tredici anni vissuti in un’esistenza dorata, improvvisamente interrotta senza spiegazioni, senza un motivo esplicito. Il mistero di questa improvvisa restituzione la proietterà nell’angosciosa regione del dubbio. La sua diafana, acerba bellezza, evocativa di visioni d’arte e fiaba, scivola lungo i sentieri di un’indagine a cui l’adolescente affida il suo nuovo destino, per la seconda volta deciso dagli altri, con mano leggera e profonda. Due madri, nessuna. Due mondi, nessuna appartenenza. Due vite, un dolore. Due abbandoni, una rinascita. Il dualismo contrapposto sembra infatti essere la chiave di lettura scelta nella sceneggiatura, a cui ha collaborato la Di Pietrantonio, e nella regia: ricchi/poveri; campagna/città; dialetto/lingua; adulti/bambini.

Una storia al femminile in un Abruzzo scabro e selvatico degli anni ’70, tra le cui asprezze tracima il dolore di un’infanzia violata dalla crudeltà del mondo degli adulti, stretto tra la miseria e le convenzioni sociali. Squarci di cielo azzurro e verdi prati fanno da cornice silvestre a una vita inedita, oscillante tra indifferenza e rifiuto; un cambiamento al quale la ragazzina si adatta malamente, cercando invano di comunicare con la madre che l’ha cresciuta negli agi e nell’amore, a fronte di una famiglia d’origine povera nella materialità e nella vita affettiva. Estranei a lei e a se stessi non parlano mai, se non per le crude necessità. A tavola, scene reiterate, mangiano in silenzio. Un ambiente primitivo, malsano, degradato; un incubo da cui la fanciulla non riesce a destarsi. Un solo progetto la anima: conoscere la verità. Perché è stata abbandonata? È colpa sua? Che cosa ha fatto? La madre è ammalata e non può prendersi cura di lei?

La sorellina Adriana, che finirà per diventare la sua alleata in questa spasmodica ricerca delle ragioni della misteriosa restituzione, è l’unica a manifestare attenzione per l’intrusa, ad accoglierla nel suo giaciglio, testa piedi. Dormono tutti in una stanza. In questa promiscuità di estranei le attenzioni del fratello diciottenne sono di altra natura, fino a sfiorare preludi d’incesto. Tra mille disagi trascorrono i giorni. A scuola l’arminuta riscuote successo, rivelando una grande predisposizione per gli studi. Spesso triste e disorientata, oscilla tra piccole gioie (surreale la scena della giostra) e un grande dolore. La prima madre è latitante, tranne che per regalie in denaro, oggetti d’uso, cibo. Ma di ben altro cibo ha bisogno la ragazzina che si dispera, si dibatte, inventandosi spazi di sopravvivenza culminanti nell’unica speranza che la nutre: conoscere la verità e ritornare alla famiglia adottiva e alla vita di prima.

La via del mare dove villeggiava con la prima famiglia diventa così la via del ritorno, fuga e salvezza nei momenti difficili. Il ritorno, tema mitico e centrale nella vita degli uomini, qui lascia tracce di sangue e riverberi di speranza. Nella scena conclusiva le due sorelle infatti si ritroveranno unite in un bagno marino simbolico, sorrette dall’amore che va oltre i legami di sangue, riconoscendosi nella solidarietà che nasce dalla disperazione e dal bisogno.

L’opera filmica ripercorre con fedeltà i tratti del romanzo, scegliendo con determinazione l’aspetto fisico dell’arminuta che qui diventa “rossa”, come le streghe, come una “diversa”, punto di forza e di fragilità al tempo stesso.

Un cast di buon livello affianca la protagonista, da Fabrizio Ferracane che mutamente incarna la ferinità del padre padrone, alla madre dolente di Vanessa Scalera dallo sguardo triste e rassegnato, all’algida madre adottiva di Elena Lietti; tutti personaggi reali, ma proiettati sul piano simbolico. Oltre la protagonista spicca felicemente in ruolo la piccola Adriana di Carlotta De Leonardis; notevoli entrambe, pur se alla prima esperienza.

L’essenzialità della regia, attenta alle immagini e avara di parole, fotografa e impone un dualismo di atmosfere, adoperando cromatismi inusuali che si intrecciano con apparente semplicità, ma in realtà configurano l’animo conflittuale e perturbato di chi deve affrontare la perdita di un’identità e trasformarla in atto vitale.

L’ARMINUTA

titolo originale: L’arminuta

titolo internazionale: Girl Returned

regia di: Giuseppe Bonito

cast: Sofia Fiore, Carlotta De Leonardis, Vanessa Scalera, Fabrizio Ferracane, Elena Lietti, Andrea Fuorto

sceneggiatura: Monica Zapelli, Donatella Di Pietrantonio, dal suo romanzo omonimo

fotografia: Alfredo Betrò

montaggio: Roberto Missiroli

scenografia: Marcello Di Carlo

costumi: Fiorenza Cipollone

musica: Giuliano Taviani, Carmelo Travia

produttore: Roberto Sbarigia, Maurizio Tedesco, Manuel Tedesco, Javier Krause

produzione: Maro Film, Baires Produzioni, Kafilms, Rai Cinema, con il sostegno di Regione Lazio

distribuzione: Lucky Red [Italia]

paese: Italia/Svizzera

anno: 2021

Dei ritorni e degli addii. Già romanzo, sugli schermi “L’arminuta”. Ed è subito film


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