Donne, quarant’anni di diritti 

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Era il 5 agosto 1981 quando venne finalmente abolito il cosiddetto “matrimonio riparatore”, ossia la possibilità per uno stupratore, perché di questo sostanzialmente si trattava, di non finire in galera sposando la vittima della sua barbarie. E il pensiero corre subito a Franca Viola, la ragazza siciliana che nel ’65 si rifiutò di sottostare a quello che nella sua terra era considerato un fatto quasi normale, compiendo un atto di ribellione straordinario che tanta fiducia e tante speranze avrebbe suscitato. Si rifiutò con queste parole: “Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”. Non avrebbe potuto dirlo meglio e a lei,  anche noi uomini, dobbiamo una parte significativa della nostra libertà.

Quest’anno, poi, ricorre anche il venticinquesimo anniversario dell’introduzione del reato di stupro come delitto contro la persona e non contro la morale, a dimostrazione che molti passi avanti sono stati compiuti ma molti altri ancora no, a cominciare dalla parità di genere e dalle pari opportunità in ogni ambito della società. Eppure, come detto, non bisogna dimenticare i risultati fin qui ottenuti né abbandonarsi a un eccesso rivendicativo che rischia di compromettere un cammino di per sé faticoso e impervio. Affinché si crei una società davvero a misura di donna, a mio giudizio, è necessario che nessuno si stupisca più di fronte all’affermazione di alcuni sacrosanti diritti, ma perché questo avvenga bisogna partire dalla scuola, dalle testimonianze delle vittime di abusi e violenze, che dovrebbero essere fatte leggere in classe fin dalle elementari, anche a costo di scandalizzare qualcuno, da una sana educazione sessuale e dall’utilizzo di un linguaggio più gentile, che bandisca ogni forma di sopraffazione e di presunta superiorità di un genere sull’altro.

Il femminismo, infatti, per trionfare deve diventare patrimonio innanzitutto di noi uomini: dobbiamo essere noi i primi a dire basta, dobbiamo essere noi i primi a rinunciare a una sorta di spirito di corpo, dobbiamo essere noi i primi ad avere rispetto per chi è costitutivamente più fragile a livello fisico ma immensamente più forte a livello mentale e psicologico e dobbiamo essere noi i primi a non tollerare più determinate domande, determinate insinuazioni, determinati programmi e determinati stereotipi.
Non sarà un asterisco a renderci migliori: occorre l’affiancamento del femminile al maschile, la fine dell’idea che un genere possa comprendere l’altro, la necessità di allungare le frasi e i discorsi, una lotta senza quartiere contro il burocratese che rende tutto più difficile, ad esempio prevedendo un limite di battute insensato nella lunghezza dei testi, e l’introduzione del doppio cognome sul modello spagnolo, perché un bambino o una bambina sono figli di entrambi i genitori e non può essercene uno più importante dell’altro.

La parità di genere, per attecchire, deve fiorire dentro di noi, e il mestiere di noi giornalisti, a tal proposito, è prezioso, in quanto abbiamo l’opportunità di far emergere l’orrore e di generare quell’indignazione che assai più della rabbia può produrre cambiamento.
La storia di Franca Viola, dunque, deve essere fatta studiare nelle scuole, raccontata sui giornali e in televisione, portata ad esempio di un’altra idea di mondo possibile. Dalla crescita del ruolo delle donne nella società passa, difatti, la costruzione di un mondo migliore, il futuro della società stessa e la possibilità per la comunità di vivere in condizioni più umane e dignitose per tutte e tutti.
Ampliare, includere, valorizzare, coinvolgere e prendere per mano gli altri: questo hanno fatto le due leggi di cui ci siamo occupati in quest’articolo e tante altre devono esserne approvate.
Far sì che le donne possano ottenere il riconoscimento che meritano significa anche combattere tutti i fascismi, e questa per noi deve essere una ragione di vita.

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