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Genova G8 2001: abbiamo ragione da vent’anni. Intervista a Carlo Gubitosa

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E’ limpido, cristallino. Le ragioni che avevano portato migliaia di persone a Genova erano tutte giuste e addirittura profetiche. E facevano paura. Oggi come allora.

Migrazioni, cambiamento climatico, le spese militari, la repressione del dissenso sono ancora temi di forte attualità. E’ questo il messaggio che arriva da “Abbiamo ragione da vent’anni” (People edizioni),  il libro fresco di stampa di Mauro Biani e Carlo Gubitosa con prefazione di Haidi Gaggio Giuliani e introduzione di Lorenzo Guadagnucci. Alternando parole e illustrazioni, le pagine sovrappongono le piazze di ieri e quelle di oggi e i temi combaciano. Un mondo diverso è ancora possibile. La globalizzazione dei diritti non può più attendere.

Riavvolgiamo il nastro del tempo e torniamo a quei giorni di luglio del 2001. Eri a Genova?

Si, ero lì. Avevo partecipato ai Public Forum con un intervento alla tavola sul pacifismo. Ero lì sia come giornalista freelance sia come Peacelink. Avevamo inventato un sistema di sms per avere una cronaca in tempo reale di quanto succedeva. All’epoca avevo un palmare che riceveva gli sms dai telefonini e li trasformava in messaggi di posta elettronica e Peacelink li rilanciava. Questo era stato il nostro contributo al mediattivismo del G8 che a Genova si è espresso in tanti modi; a cominciare da Indymedia che ha raccolto i video e i filmati grazie ai quali abbiamo potuto sapere cosa fosse davvero successo nella Diaz.

Continuiamo il viaggio nel tempo. Andiamo ai giorni prima del G8. Erano sorti in Italia tanti social forum nelle varie città. Tu da dove arrivavi?

Io partivo da Milano. C’era già stato il primo forum mondiale di Porto Alegre e da lì l’idea di ripetere l’esperienza a Genova, raccogliendo quello che di meglio era in grado di produrre la cultura dell’associazionismo, delle ong, del volontariato, dei gruppi di resistenza civile. Senza sapere che, per una fortunata combinazione di ignoranza tecnica e repressione politica, a Genova invece di dare spazio e voce al meglio della società civile si sarebbe data la stura alla peggiore espressione del potere in carica e alla repressione ad opera delle forze dell’ordine. Questo era lo scenario. Ma il cuore dell’essere a Genova era la rete delle 1187 associazioni italiane e internazionali che si radunavano nella sigla del Genoa Social Forum. Era quella la ricchezza politica e culturale, spazzata via a colpi di manganello.

Come giornalista che racconto avevi in mente di fare dei giorni di Genova?

Ero lì per raccontare sia il public forum che avrebbe preceduto il vertice sia le piazze tematiche organizzate in contemporanea al G8 per far sentire la voce delle restanti 6 miliardi di persone del mondo.

Sei riuscito a raccontarle? Quando le violenze hanno preso il sopravvento la tua cronaca immagino sia dovuta cambiare …

Fino al 19 luglio è stato possibile, compreso il corteo dei migranti  che è stato un momento di grande speranza. C’erano stati solo disordini fisiologici del corteo, ma era stato pacifico e positivo. Il problema è che la violenza dei giorni successivi ha preso il sopravvento.

Ti sei ritrovato coinvolto in qualche episodio di violenza?

Ho avuto anche io la mia dose di gas CS. Era il pomeriggio del 20 luglio e furono lanci di lacrimogeni attorno al media center allestito al Genoa Social Forum. Anche il centro media non era stato risparmiato dalle forze di polizia che, d’altronde, in quelle ore non risparmiavano niente e nessuno.

Mi sono però affacciato anche al di là della zona rossa. Volevo vedere cosa succedeva. E quindi ho avuto modo di vedere cosa succedeva nella sala stampa del G8 confermando i rituali di finto dibattito tipici di questi incontri. Solo un pool ristretto di giornalisti autorizzati a fare le domande, ma non tutte le domande che credono. E’ una gestione pilotata.

Dove eri la notte della Diaz?

Ero con i volontari della Papa Giovanni XXIII con cui avevamo partecipato al dibattito sul pacifismo. La sera del 21 luglio ero per strada quando sono arrivate le telefonate di amici che mi dicevano di andare alla scuola Diaz perché stavano succedendo delle cose incredibili. Ma quando siamo arrivati ci siamo trovati di fronte una barriera impenetrabile di agenti di polizia che ci ha poi impedito fino al giorno dopo di accedere e di vedere quella che fu definita la “macelleria messicana”.

 Dopo Genova tu hai lavorato per fare memoria e hai ricostruito storicamente i fatti di Genova. Perché?

Scrivere Genova nome per nome (2003, edizioni Altreconomia) è stato un esercizio terapeutico perché ho dovuto rielaborare tutta la violenza di Stato che non avevo mai sperimentato prima di allora. Non avevo fatto le manifestazioni del ‘77. Non avevo mai partecipato a cortei repressi con così tanta violenza. Per me la polizia era quella di Falcone e Borsellino, quella dell’antimafia. La polizia che mi tutelava. Per rielaborare, per capire cosa ci fosse tra quella polizia e quella che mi gassava con armi chimiche, ho sentito il bisogno di fare uno sforzo di ricostruzione. E nel farlo ho recuperato a monte anche tutta l’agenda politica del movimento altromondialista, sui motivi che ci hanno portato a Genova, sul perché ci sono state delle organizzazioni che hanno voluto contestare una forma di potere politico e economico  e una gestione dei beni comuni che andava, invece, nell’interesse di pochi e non di tutti.

Credo che molti di quei temi fossero profetici. Basta pensare alla questione dell’emergenza climatica che era parte della piattaforma del Genoa Social  Forum  e che invece i più grandi statisti dei paesi ricchi del pianeta hanno liquidato con la “decisione di non decidere”: nel documento finale del G8 scrivevano che non erano d’accordo sull’accordo di Kyoto, che di per sé era un cerotto messo sul problema ben piu grande del cambiamento climatico con la previsione di una  riduzione delle emissioni del 5 per cento in 10 anni. Di fronte all’inadeguatezza della politica istituzionale ho voluto recuperare la politica civile che non ha rappresentanza nei partiti, governi e istituzioni ma che ha dalla sua le ragioni tecniche, scientifiche, politiche e l’evidenza dei fatti.

Il tuo recente libro con Mauro Biani “Abbiamo ragione da vent’anni” cosa aggiunge al racconto che hai già fatto sui giorni di Genova?

Questo libro recupera l’agenda politica di Genova, non i fatti di cronaca. Su tanti temi l’agenda di 20 anni fa è valida tanto oggi quanto allora. Pensiamo alla questione delle migrazioni, della redistribuzione economica, dei brevetti farmaceutici, della spesa militare, del modello di sviluppo oggi è fisiologicamente insostenibile per il pianeta.  La repressione dia Genova è la stessa che si ripete quotidianamente quando ci sono sindacalisti, lavoratori, insegnanti che rivendicano diritti. Ho recuperato quindi tutti questi temi che dovrebbero essere al centro dell’agenda dell’informazione e della politica che, invece, li lascia ai margini mentre volge il riflettore sugli scontri, sulle ideologizzazioni, sul confronto politico che diventa guerra per bande, prima per le strade e ora anche nei social network.

Come mai la scelta di realizzare questo libro proprio con Mauro Biani?

E’ un dire le stesse cose con due linguaggi diversi: io uso la saggistica, Mauro le illustrazioni. Abbiamo voluto ritrovarci in questo libro anche perché il percorso che abbiamo fatto in questi anni è simile: entrambi scout, attivisti dell’area pacifista, sostenitori di Peacelink e del movimento nonviolento, partecipanti alla marcia Perugia-Assisi. E’ questo percorso comune che ci ha spinto a fare questo libro insieme, ciascuno con il suo linguaggio.

Tornare sui temi, anche perché è importante non fermarsi nella commerazione…

Se Genova si ferma alla commemorazione serve a poco. Credo che i fatti di Genova servano come dato politico, per interrogarsi e per dare la direzione.

Alla società in generale, ma in particolare alla Sinistra che, per usare un eufemismo, ha perso il contatto su certi temi. In alcuni casi si è collocata all’opposto del movimento, come ad esempio sulla questione delle migrazioni. A Genova abbiamo fatto un corteo dei migranti chiedendo una gestione della migrazione che togliesse il respiro al mercato degli scafisti. Mentre la scelta di governo della sinistra è stata quella di subappaltare la gestione dell’intercettazione dei migranti a Stati canaglia dove si pratica la tortura, finanziando come accaduto con gli accordi con la Libia di Minniti e del Pd.

Unica speranza di oggi, ripetono in tanti, è nei Fridays for future?

Non è una speranza, ma un programma perché i movimenti di lotta al cambiamento climatico hanno dimostrato di saper cogliere la complessità dei problemi e non a caso nella piattaforma di Fridays For Future non c’è solo la lotta per il proprio futuro ma anche una richiesta di giustizia per tutti che si colloca con continuità ideale con quanto chiesto nelle strade di Genova. Resta alla politica di tradurre in scelte le richieste di giustizia climatica. La politica dovrebbe porsi delle domande: Quale è l’ingiustizia che c’è dietro un modello di sviluppo devastante per un ecosistema? In che modo il nostro sistema crea sconvolgimenti climatici e disastri in altre parti del mondo costringendo la gente a fuggire non solo da guerre e dittature, ma anche da carestie e devastazioni climatiche? In che direzione va il dibattito politico sul diritto d’asilo? Andrebbe esteso anche a chi fugge dalle crisi climatiche?

Tutto questo fa parte dell’elaborazione di Fridays For Future, che rispecchia nel bene e nel male quello che è stato il Genoa Social Forum. Che va dagli attivisti che si impegnano quotidianamente fino ai simpatizzanti . Un movimento ridicolizzato e incompreso dalla politica e dai mezzi di informazione.

Che cosa sbagliano i mezzi di informazione nel raccontare i Fridays For Future?

La sfida é di raccontare la complessità che c’è dentro i Fridays For Future. Mi piacerebbe vedere un’informazione che sia altrettanto elaborata nell’interpretare e raccontare questo movimento, senza banalizzazioni e ridicolizzazioni.

Se da una parte c’è il movimento globale che fa delle riflessioni con forti basi scientifiche e articolate dall’altra parte mi aspetto delle rappresentanze del movimento che non si limitino al personaggio, non sfocino nel leaderismo, ma vadano a fondo nei problemi. Usciremo da questa crisi solo con un impegno di questo tipo dei mezzi di informazione. Un esempio: 20 anni fa. Emilio Fede ridicolizzava Agnoletto chiamandolo Agnolotto. Fede trascurava i temi e con coglieva, ad esempio, la centralità del tema dell’accesso ai farmaci. Oggi tutti,  anche il pubblico di Emilio Fede, paga le conseguenze del fatto che solo 1% della popolazione dei paesi più poveri sia vaccinato, anche loro capiscono che è un pericolo per tutti.

Oggi dov’é mediattivismo?

Da una parte nei click con like e cuoricini di chi pensa che così si possa incidere sull’orientamento della società e dei politici. Questa è la parte più deleteria che rimane ripiegata su se stessa nella sfera virtuale. Questo attivismo tra l’altro si appoggia su piattaforme che vanno dalla parte opposta alle loro stesse richieste.

I movimenti per la solidarietà internazionale, per la giustizia sociale contro lo strapotere delle multinazionali e delle grandi corporation sono tutti su facebook che è proprio una delle più grandi corporation, con una concentrazione di potere mai vista prima nella storia dell’umanità. Una piattaforma che è stata strumento chiave, ad esempio, per portare a termine la campagna nazionalista per la Brexit. Senza Facebook senza Cambridge Analytica, senza i messaggi  e le fake news che avevano come target gli indecisi, non ci sarebbe mai stata la crescita del nazionalismo che abbiamo visto in Europa.

La parte piu virtuosa è invece l’universo delle piattaforme federate che stanno offrendo degli spazi di confronto e incontro esterni alle grandi piattaforme. Noi di Peacelink abbiamo messo in piedi Sociale.network che è una piattaforma di microblogging equivalente a twitter, ma basata su un software migliore perché gli utenti non vengono profilati, non vieni invaso da pubblicità, non vengono flitrati i contenuti dei tuoi contatti. Qui puoi iscrivere fino a 500 caratteri, non dovendo quindi ragionare per slogan. Su queste piattaforme circolano contenuti alternativi e ci sono spazi anche di attivismo locale.

Chi sono i mediattivisti di oggi?

E’ un universo molto variegato: c’è gente che arriva da Indymedia di 20 anni fa, altri che si sono affacciati ora sui problemi dei social network, ad esempio leggendo nei rapporti Onu che Facebook ha svolto un ruolo rilevante nel genocidio della minoranza musulmana in Myanmar.

Lasciamo dunque lo spazio completamente libero sulle grandi piattaforme social? Non è troppo rischioso abbandonarle completamente?

L’obiezione è giusta. La domanda che ci si pone quando ci si sposta su questi spazi alternativi è: “Ma non rischiamo di parlarci addosso? Di crearci delle bolle?”.  Due dati per rispondere: le reti sociali decentrate alternative esistono ormai da una decina d’anni con 5mila piattaforme attive e 4,5 milioni di utenti. Nelle piattaforme commerciali ci sono molti più limiti e controlli. Viviamo nelle bolle soffiate dall’algoritmo e in un contesto che ha dei pericolosi meccanismi di censura.

Sulle piattaforme sociali puoi costruirti una bolla formata da persone con cui condividi principi e iniziative concrete. La bolla che Facebook ti permette di avere la decide lui, in base agli introiti pubblicitari pianificati.

Pensiamo all’esperienza delle botteghe del commercio equo e solidale. Sono spazi alternativi e forse una goccia nel mare, ma sappiamo che possono condizionare il grande supermercato e la grande distribuzione alimentare. Ma se la Grande Distribuzione resta l’unica sul mercato, l’alternativa non esiste. Se invece c’è un movimento di consumo critico di commercio equo che si manifesta nelle botteghe questo può condizionare delle scelte. Oppure ricorderemo tutti quando WhatApp ha imposto dei termini inaccetabili e c’è stata una fuga in massa per milioni di persone. Facebook, che ne detiene la proprietà, ha fatto un passo indietro e ha dovuto regolarsi di conseguenza.

Sulle piattaforme  social si sta riscoprendo quell’uso critico delle tecnologie dominanti. Indymedia, la rete del media attivismo dei singoli cittadini, si poneva come racconto alternativo alle tv. Oggi ci sono le piattaforme di massa e, dall’altro lato, le reti sociali su software libero.

I diritti d’autore del libro “Abbiamo ragione da vent’anni” saranno destinati al “Comitato Carlo Giuliani ONLUS“. 


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