Vaglio di costituzionalità per la previsione di pena detentiva nel reato di diffamazione a mezzo stampa

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Il  prossimo 22 giugno 2021 la Corte Costituzionale affronterà – relatore il Prof. Francesco Viganò – le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Salerno e Bari relativamente alla legittimità della pena detentiva prevista dal codice penale per la diffamazione a mezzo stampa.

Un anno fa, con un comunicato stampa del 9 giugno 2020, la Corte testualmente evidenziava «che la soluzione delle questioni richiede una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale» rinviando la trattazione delle questioni al fine di «consentire alle Camere di intervenire con una nuova disciplina della materia».

Il 26 giugno 2020 venivano poi depositate dalla stessa Corte le motivazioni dell’ordinanza n 132/2020 nelle quali veniva ribadito che «il bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione non può (…) essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni; il bilanciamento espresso dalla normativa vigente è divenuto ormai inadeguato, e richiede di essere rimeditato dal legislatore “anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (…), che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive (…) nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui”, e ciò anche in funzione dell’esigenza di non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri».

 

Un simile, delicato, bilanciamento – concludeva la Corte – «spetta in primo luogo al legislatore, sul quale incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività. Il legislatore, d’altronde, è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio».

Non essendo medio tempore intervenuto il Legislatore, la Corte Costituzionale deciderà a breve. 

Nel 2019 il Tribunale penale di Salerno sollevava, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art.10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma CP e dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) asseritamente violati dalla previsione, nelle due disposizioni censurate, della pena della reclusione – in via alternativa o cumulativa rispetto alla multa – a carico di chi sia ritenuto responsabile del delitto di diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.

Faceva seguito il Tribunale penale di Bari che sollevava, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. ed in relazione all’art. 10 CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art.13 della legge n. 47 del 1948, in combinato disposto con l’art. 595 cod. pen., «nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 256 [recte: 258] euro, invece che in via alternativa».

Le due ordinanze sollevano questioni analoghe e venivano riunite ai fini della decisione.

Interveniva il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti (CNOG) sostenendo che tale previsione sarebbe altresì incompatibile con gli artt. 3 e 21 Cost. stante il carattere «manifestamente irragionevole e totalmente sproporzionato» della pena detentiva rispetto all’importanza della libertà di manifestazione del pensiero.

Un previsione di pena « non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ovvero il rispetto della reputazione personale», nonché contraria al principio della necessaria funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. «attesa la inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa».

La  giurisprudenza della CEDU, almeno alla sentenza della grande camera 17 dicembre 2004, Cumpn e Mazre contro Romania, ebbe modo di esaminare il ricorso di due giornalisti, condannati per diffamazione in quanto autori di un articolo nel quale accusavano un giudice di essere coinvolto in fatti di corruzione, e confermò la sentenza contro gli imputati, ritenendo che le gravi accuse rivolte alla vittima fornissero una visione distorta dei fatti e fossero prive di adeguati riscontri fattuali.

Nel contempo però la CEDU affermò che la pena così come comminata in sette mesi di reclusione non sospesa, costituisse una invasione sproporzionata e «non necessaria in una società democratica» ai sensi dell’art. 10, paragrafo 2, CEDU sul diritto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 del medesimo art. 10 CEDU.

Nella stessa pronuncia la Corte EDU ribadiva il proprio orientamento secondo cui la stampa svolge l’essenziale ruolo di «cane da guardia» della democrazia (sentenza 27 marzo 1996, Goodwin contro Regno Unito, paragrafo 39), rilevando che «se è vero che gli Stati parte hanno la facoltà, o addirittura il dovere, in forza dei loro obblighi positivi di tutela dell’art. 8 CEDU, di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione delle persone, non devono però farlo in una maniera che indebitamente dissuada i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri».

La previsione di sanzioni detentive così aspre produce, sempre secondo la Corte UE, un preoccupante effetto dissuasivo («chilling effect») rispetto all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti, soprattutto della loro attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle loro indagini, tale da riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali sanzioni.

In definitiva la Corte EDU concludeva che «l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza»

Medesimi principi furono richiamati nelle sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia e 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia, il cui controllo esecutivo da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa è ancora pendente.

La Cedu affermò la legittimità della condanna dei due giornalisti ricorrenti, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte del giornalista (ovvero del direttore responsabile) ma ritenne sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva.

Del resto lo stesso Comitato dei ministri del Consiglio UE adottava il 12 febbraio 2004 una Dichiarazione sulla libertà dei dibattiti politici nei media in cui ebbe modo di  affermare che risarcimenti e sanzioni pecuniarie per la diffamazione a mezzo stampa devono essere proporzionati alla violazione dei diritti e della reputazione delle persone offese e tenere in considerazione eventuali condotte riparatorie intervenute, e che la pena detentiva non dovrebbe essere applicata, salvo in casi di grave violazione di altri diritti fondamentali, che la rendano strettamente necessaria e proporzionata.

Da sempre la CEDU configura la libertà di manifestazione del pensiero alla stregua di un diritto fondamentale riconosciuto come «coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione» (sentenza n. 11 del 1968), «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza n. 84 del 1969), «cardine di democrazia nell’ordinamento generale» (sentenza n. 126 del 1985 e, di recente, sentenza n. 206 del 2019).

Nell’ambito di questo diritto, la libertà di stampa assume un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico (sentenza n. 1 Corte Costituzione del 1981), nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini: un diritto quest’ultimo «qualificato in riferimento ai princìpi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale», e «caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie […] in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti (sentenza n. 112 del 1993, richiamata dalla sentenza n. 155 del 2002)» (sentenza n. 206 del 2019).

Non v’è dubbio pertanto che l’attività giornalistica meriti di essere «salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta» (sentenza n. 172 del 1972) che possa indebolire la sua vitale funzione nel sistema democratico, ponendo indebiti ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione, anche attraverso la critica aspra e polemica delle condotte di chi detiene posizioni di potere.

Di contro il legittimo esercizio, da parte della stampa e degli altri media, della libertà di informare e di contribuire alla formazione della pubblica opinione richiede di essere bilanciato con altri interessi e diritti, parimenti di rango costituzionale, che ne segnano i possibili limiti fra i quali  si colloca la reputazione della persona, che costituisce al tempo stesso un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenze n. 37 del 2019, n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973) e una componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU (ex multis, Corte EDU, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna), che lo Stato ha il preciso obbligo di tutelare anche nei rapporti interprivati (in questo senso la menzionata sentenza Cumpn della Corte EDU, paragrafo 91), oltre che un diritto espressamente riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.

Un diritto, altresì, connesso a doppio filo con la stessa dignità della persona (sentenza n. 265 del 2014 e, nella giurisprudenza di legittimità, ex plurimis Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 ottobre 2010, n. 4938), e suscettibile di essere leso dalla diffusione di addebiti non veritieri o di rilievo esclusivamente privato.


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