Guerre, radicalismo e jihad nell’Africa contemporanea

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Sulla base delle analisi riportate nel Conflict Barometer 2020 dello Heidelberg Institute for International Conflict Research, appare subito chiaro come le guerre in Africa, più che moltiplicarsi e aumentare di numero, tendono a diventare endemiche.

L’orientamento generale che emerge, nell’analisi dei conflitti africani, è di caratterizzarli come lotte intestine, intra-statali, in apparenza etniche. Si ha la tendenza a spiegarne origine e sviluppo ricercandone un solo registro interpretativo principale, laddove gli stessi protagonisti ne utilizzano più di uno, dando loro il medesimo valore.

Mario Giro sottolinea come, in Europa e sui media occidentali, in genere vengono rappresentate come brutali e selvagge, dal sapore esclusivamente etnico e perciò stesso arcaiche, quasi incomprensibili. Egli stesso le ha definite guerre nere a causa della loro enigmaticità, le cui radici sono difficili da capire. Eppure si tratta di conflitti molto più moderni di ciò che si è portati a credere, legati alle condizioni socio-economiche e ambientali delle terre in cui scoppiano, dove si mescolano registri culturali e umani diversi.

Ricorda l’autore come, paradossalmente, l’Africa sia entrata nella globalizzazione ancor prima dell’Europa, tornando a essere al centro degli interessi del commercio globale sia per le materie prime che per le infinite possibilità economiche che offre, inclusi i traffici illeciti. In molti casi ciò non ha fatto che acutizzare o far riemergere vecchi conflitti mai del tutto risolti o crearne addirittura di nuovi.

Nel volume Giro non riesce a trattare tutti i conflitti africani e sceglie di approfondire quelle guerre nere che hanno un valore emblematico del cambiamento sociale e antropologico dovuto alla globalizzazione. Un’analisi sui conflitti armati e violenti che conduce necessariamente a quella del fenomeno dei «signori della guerra» come reazione socio-antropologica alla decomposizione della società tradizionale, il cosiddetto fenomeno del warlordismo.

Un tema particolare, ampiamente discusso da Giro, è quello della privatizzazione del guerra, di come sia possibile per milizie, ribelli, e in qualche caso anche eserciti ufficiali, continuare a vivere di guerra senza la guerra, trasformando i gruppi armati in bande dedite ad altri tipi di traffici o con funzioni di provider di sicurezza.

Fino a qualche anno fa si trattava di fenomeni temporanei che gli Stati cercavano di riassorbire rapidamente, oppure di forme di violenza occulta, magari manipolata dagli Stati stessi ma mai apertamente rivelata. Ufficialmente e sostanzialmente l’utilizzo della forza rimaneva monopolio pubblico.

I barbouzes francesi, i mercenari sudafricani o le squadre speciali Usa o britanniche facevano parte di tale storia occulta.

Oggi gli Stati, incluse le grandi potenze, hanno accettato il principio della privatizzazione della guerra. Il risultato più evidente è l’utilizzo dei dei cosiddetti contractors, nuovi mercenari impiegati già dagli Usa nelle guerre del Golfo.

L‘effetto immediato di tale indirizzo è il moltiplicarsi delle milizie – private e semi-private – in tutti gli scenari di conflitto. In un tale contesto la violenza diviene, nell’analisi di Giro, ibrida: spesso non è chiaro se si ha a che fare con un gruppo armato che lavora per uno Stato, per una etnia o un clan, per sé stesso, per un’idea o un’ideologia, per una potenza straniera o per un gruppo terrorista.

È possibile vedere tale evoluzione nell’universo islamico, laddove il conflitto ideologico o religioso si trasforma in “impresa armata” e deve mutare caratteristiche per tener conto delle rivendicazioni ed esigenze delle popolazioni nei territori ove si è fissato.

Esattamente ciò che è avvenuto in Nigeria e Sahel, dove la guerra ha costretto l’islam jihadista a fare i conti con la complessità della realtà socio-economica e umana.

Anche in Africa, come in Medio Oriente, l’islam radicale e jihadista può essere analizzato, per Giro, quale grammatica della rivolta per giovani senza più etnia e famiglia, espulsi dalla società tradizionale. In buona sostanza, la scelta delle armi per i giovani africani può dipendere dalla necessità di trovare un diverso ordine sociale dentro il caos che li avvolge, la scoperta di una nuova via per emergere in una società che non li considera più.

Unirsi ai seguaci di Boko Haram o con al Qaeda nel deserto del Sahara può sembrare loro davvero un’alternativa valida laddove non c’è altra prospettiva, se non quella dell’emigrazione. È questo il destino dei «cadetti sociali» in tempi di crisi e di grandi trasformazioni.

Nel Sahel, come nella regione dei Grandi Laghi, del Sudan o del Corno, la guerra si trascina dagli anni Sessanta.

Il conflitto tra nomadi e governi nazionali, frattura di cui starebbero approfittando gli jihadisti, rappresenta per l’autore un caso tipico in cui la radice socio-economica e identitaria dello scontro è stata affrontata mediante uno scambio diseguale tra élite, senza mai incidere sugli aspetti legati alla comunità reale.

Né del tutto bianco (nomadi e arabi) né davvero nero, il mondo saheliano ha assistito all’affiliazione di molti dei suoi giovani ai cartelli vari, all’emigrazione di tanti di loro o all’arruolamento nelle varie guerriglie locali. In un tale caos antropologico e sociale si è innestato di recente anche il jihadismo globale.

L’islam di tendenza rigorista – sia esso di matrice salafita o jihadista – contesta l’accento prevalentemente moderato dell’Islam nero, legato alla tradizione africana che dà maggiore importanza all’appartenenza etnica, e predica un ritorno alle fonti allo scopo di «purificare la religione» dagli elementi tradizionali africani.

In ambito musulmano, e in particolare nella Nigeria del Nord, i movimenti salafiti hanno rappresentato una risposta a un’esigenza largamente sentita: preservare l’unità e l’integrità della comunità islamica sfidata dalle innovazioni della globalizzazione ma anche dai privilegi di un’élite vecchia e corrotta, incapace di mantenere un ordine sociale equo. Ed è proprio nella motivazione di fondo della sua origine che Mario Giro ravvede il suo primo grande paradosso. I riformisti salafiti, pur condannandola, sono stati uno dei frutti della globalizzazione: offrono un prodotto religioso deterritorializzato e pronto all’uso ovunque, disintermediando la stessa educazione religiosa una volta affidata ai soli ulema tradizionali.

In Mozambico, a metà del 2020 le violenze attribuibili ai ribelli jihadisti hanno provocato circa mille morti in oltre duecento attacchi. In più occasioni i miliziani hanno issato la bandiera nera dello Stato islamico.

Dalla ricostruzione dettagliata di Giro emerge con chiarezza che, esattamente come avvenuto con la nascita dei Boko Haram, la prima versione di Ansar in Mozambico sarebbe stata non violenta, conseguenza del malcontento etnico degli nwani e dei macua, per poi passare a rappresentare il disagio di un gran numero di giovani della provincia.

L’insorgenza jihadista sarebbe, secondo anche i concetti espressi da Olivier Roy, una forma di islamizzazione della rivolta, in reazione alla marginalità e alla povertà, a cui non sono estranee le conseguenze provocate dalla presenza, ingombrante, delle grandi compagnie petrolifere e dai corrotti settori del commercio delle pietre preziose e del legno, ciò naturalmente con stretto riferimento a quanto accaduto in Mozambico ma applicabile, per corrispondenza, anche ad altre zone del continente africano.

Almeno nella fase iniziale di repressione anti-jihadista, le autorità mozambicane hanno arrestato numerosi tanzaniani, congolesi, ugandesi, gambiani e burundesi. Nelle rare dichiarazioni rese, gli insorti stessi affermano di avere come obiettivo quello di creare la nazione indipendente dei musulmani dell’Africa orientale, che copra il Nord del Mozambico, una parte della Tanzania, inclusa l’isola di Zanzibar, e altri territori, imponendo la sharia. Nei loro proclami hanno più volte affermato di essere associati allo Stato islamico (Isis). Malgrado ciò l’autore evidenzia come molti esperti ritengano invece tale affiliazione solo presunta, o meglio ideale, nel senso che vada ricondotta all’aspetto dell’emulazione e del libero franchising, ormai frequente nell’universo del radicalismo islamico.

Fenomeni noti come i foreign fighters o il diffondersi di gruppi jihadisti in terreni dove non c’era mai stata la presenza dell’islam militante, dimostrano come si tratti in effetti di un vero e proprio prodotto replicabile ovunque. Del resto il jihadismo globale, come prodotto religioso del ribellismo globale è dovuto proprio al suo sradicamento dal territorio e dalla cultura di origine. Sempre più di frequente ci si converte all’islam estremista da soli, mediante un computer, e non all’interno di una comunità.

Ormai la gran parte dei conflitti si configura come guerre con più attori:

  • In Siria si sono contati fino a duecento attori.
  • In Nigeria o in Somalia poco meno di duecento.
  • In Yemen o in Libia circa cento.
  • In Iraq o in Afghanistan circa cinquanta.

Si tratta di milizie di autodifesa, di gang di criminali, di contractors, di agenzie di sicurezza private, di cittadini organizzati… Per Mario Giro ormai la dottrina liberista ha occupato anche il campo della forza militare che non è più monopolio degli Stati. È un fenomeno che è sempre esistito certo, ma ora si è giunti a un livello superiore con la guerra che diviene un affare al pari di altre imprese, inserita nel quadro delle opportunità possibili con la globalizzazione.

Stando ai dati diffusi dalla società britannica War on Want, il giro d’affari dei contractors ammonta oggi tra i 200 e i 400 miliardi di dollari.

Bibliografia di riferimento

Mario Giro, Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020.

 

L’Autore

Mario Giro: Docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università per stranieri di Perugia. Già viceministro degli esteri dal 2013 al 2018, è membro della Comunità di Sant’Egidio di cui è stato responsabile delle relazioni internazionali dal 1998 al 2013.


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