Patrick Zaki, un anno dopo

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Quando il governo Gentiloni commise l’errore di rimandare l’ambasciatore italiano in Egitto, il giorno di Ferragosto del 2017, affinché l’opinione pubblica fosse sufficientemente distratta e in vacanza per non scendere in piazza indignata, il mio primo pensiero andò ai genitori di Giulio Regeni. Il secondo, tuttavia, andò alle regole essenziali della geo-politica e delle relazioni internazionali. Ebbene, lo dicemmo allora e lo confermiamo adesso: quella scelta fu un clamoroso errore, non solo per la disumanità che reca con sé quanto, più che mai, per le conseguenze che essa avrebbe avuto per il nostro Paese. Chiunque conosca l’importanza dei rapporti di forza, sa infatti che in politica estera, specie con nazioni rette da regimi dittatoriali in cui non esiste proprio il concetto di diritti umani, l’unica possibilità che si ha di prevalere su bande, ras locali, capitribù e tagliagole di varia natura è quella di non mostrare mai la propria debolezza, dovuta al fatto di avere remore che una dittatura non si pone minimamente. Serve anche una buona capacità diplomatica, ma da questo punto di vista siamo forse i migliori al mondo, considerando la qualità dei nostri ambasciatori e l’esperienza e la preparazione di tutto il personale della Farnesina.
Serve, tuttavia, anche un minimo di fermezza, la cognizione di essere l’Italia, un paese del G7, un paese cui non si può continuare a mentire impunemente come sta facendo il regime di al-Sisi in merito al caso Regeni, un paese che non si può prendere in giro fino al punto di tenere in prigione un ragazzo accusato di non si è ancora ben capito cosa. Ebbene, la vicenda di Patrick Zaki è emblematica della nostra fragilità, dell’ingiustizia di una tirannia invereconda, della necessità di concedergli subito la cittadinanza italiana e del dovere morale che ha la nostra categoria di tenere accesi i riflettori su una tragedia che non può essere derubricata a questione secondaria, neanche in una fase così travagliata della nostra vita politica e civile.
Perché Patrick, al pari di Giulio Regeni, ci riguarda. Studiava in Italia, precisamente a Bologna, ed è nostro dovere far sì che vi torni quanto prima, che cessi la vera e propria tortura che sta subendo e che il nostro paese faccia sentire con vigore la propria voce, senza nazionalismi da operetta o nostalgie ducesche ma con l’autorevolezza di una sana politica mediterranea che favorisca la crescita della democrazia là dove sta attecchendo e non si pieghi al cospetto di despoti contro cui battersi è un preciso dovere.
Patrick Zaki, un anno dopo. Guai ad abbassare la guardia su un dramma che coinvolge da vicino tutti noi.

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