Leonardo Sciascia: il maestro illuminista. Lo scrittore, il lettore appassionato, l’editore

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Alla trappola dei consuntivi e delle celebrazioni in memoriam sfuggono alcune schegge impazzite. Leonardo Sciascia è fortunatamente una di queste. Anzi, questo scrittore impuro, spurio, irregolare è stato uno dei pochi intellettuali finiti alla sbarra per il suo gusto di contraddire e di contraddirsi. Un uomo che per tutta la vita, per sua stessa ammissione, è stato preso dal demone dello scrivere e del leggere e che ha lasciato alle giovani generazioni il suo magistero, esercitando una «critica della cultura» per mezzo di una «cultura della critica»: la stessa che il maestro elementare ha fatto confliggere nei suoi libri con l’irrazionalità della storia lenta del Meridione.

Senza Sciascia si tocca con mano l’orfananza di una generazione che si abbeverava – controcorrente – ai suoi scritti, alla sua parola carica di pietas che orientava ma che mai si è data provocatoria o animosa. Adesso senza la sua indefettibile vigilanza sul potere, nessuno può fare a meno di assumersi la responsabilità di rileggerlo, di scherzare (intesa come pratica morale ed estetica), come faceva lui, sulle cose che si temono, che si odiano, che si amano, di credergli contro pure, senza la pretesa infida di pensarla come lui…  Sciascia non è stato soltanto l’intellettuale di punta, il polemista, lo scrittore, ma anche un raffinatissimo «facitore di libri».

Il Leonardo Sciascia, «appassionato incompetente» d’arte lascia infatti emergere nel corso della sua attività una doppia personalità: il razionalista che smaschera la realtà attraverso una costruzione di finzione, dall’altro il topo di biblioteche e di librerie, l’amanuense recensore, l’appassionato di incisioni; insomma, un novecentesco San Girolamo nel suo studio se proprio decidessimo di raccontarlo con l’immagine che lui stesso consigliò, con la solita, allusiva e perentoria discrezione, per la copertina di Dalle parti degli infedeli. «L’autore, Leonardo Sciascia, maestro elementare di Racalmuto, è un giovane letterato molto intelligente che dirige laggiù una rivistina assai pulita – Galleria – e delle edizioncine di poesia». Così Italo Calvino (ne I libri degli altri) nell’ottobre del 1954 scriveva ad Albero Carocci dello scrittore siciliano, indirettamente individuandone una attività che Sciascia avrebbe coltivato parallela: appunto, quella appunto di «facitore di libri». Ed i libri – scriveva Bradbury in Fahrenheit 451 – sono bombe. E tanto si potrebbe raccontare sulla sua «felicità di far libri». Soprattutto di romanzi, genere borghesemente pericoloso e proscritto, già divertissement criminels.

Categoria che – come suggeriva Borsieri all’inizio dell’800 – andava riformata «in quanto genere filosofico» o rifondata come avrebbero fatto Manzoni prima e, appunto, Sciascia poi. Per questa stessa ragione se quelli andavano emendati, i libri tutti, dovrebbero essere esposti: invece Manzoni scriveva che «in tanta parte d’Italia i libri non erano nemmeno visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano per gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento. Dimodochè arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all’uso comune: una di quelle coltivazioni, che isteriliscono il campo». Ecco, questa di levare i libri ci pare immagine di potenza quasi evangelica, non una riesumazione erudita piuttosto una resurrectio a tutti gli effetti che si compie attraverso le carte di Sciascia.

Nella borgesiana biblioteca di Babele in cui labirinticamente i libri inseguono se stessi in una spirale infinita di testi e di parole o nella prosa geografica del Bartoli, o meglio lungo il decalogo quasi infinito che Calvino evoca in Se una notte d’inverno un viaggiatore, il cristallo sognante che è l’autore brilla di tutti quei riverberi bianchi e neri delle parole sulle pagine. L’autore dunque. E l’autore Sciascia soprattutto. E anche l’editore Sciascia. Se Bufalino «aveva letto tutti i libri senza pubblicarne uno suo»; se Calvino aveva dichiarato d’essere contento d’avere dedicato «il massimo del tempo della mia vita ai libri degli altri, non ai miei», Sciascia dimostra non solo di avere letto quasi tutti questi e quei libri, ma di averne impresso moltissimi altri col suo segno: note, risvolti di copertina, appunti, promemorie, financo le presentazioni dei suoi stessi scritti. Se, come si va sentendo dire, la letteratura è immorale ed è immorale sarebbe l’attendervi, l’Autore è già per definizione colpevole. E chi è stato più colpevole e colpevolizzato del maestro di Racalmuto, almeno nella storia recente delle nostre belle lettere? L’illuminista Sciascia. Quello che smentì il pregiudizio consolidato che «stampare libri in Sicilia sia come coltivare fichidindia a Milano…»


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