Ettore Scola cinque anni dopo

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Cinque anni senza Ettore Scola, ahinoi, si fanno sentire. Quando ci disse addio, all’età di ottantaquattro anni, perdemmo non solo un grande regista ma anche un amico e un punto di riferimento. Il cinema di Scola, infatti, è stato fin dagli esordi un perfetto connubio fra lo spirito spensierato del Marc’Aurelio, la rivista umoristica in cui si formarono alcuni tra i protagonisti del cinema italiano del dopoguerra, da Fellini ad Age e Scarpelli, passando ovviamente per lo stesso Scola, e la coscienza critica di uno straordinario osservatore dei cambiamenti socio-politici verificatisi nel corso dei decenni.
Scola è stato un faro per la comunità progressista, con capolavori che hanno raccontato il tormento della “giornata particolare” in cui si svolse la visita di Hitler a Roma, il declino degli ideali resistenziali che avevano animato l’immediato dopoguerra, il degrado della sinistra, stretta nel suo dibattito autoreferenziale e incapace di comprendere il mutamento dei tempi, le molteplici sfaccettature della periferia romana e del concetto stesso di periferia e mille altre caratteristiche del nostro stare insieme che andrebbero nuovamente analizzate a fondo per comprenderne l’evoluzione.
Scola aveva in sé un tratto felliniano e un tratto pasoliniano: sapeva essere lieve come il genio di Rimini e intenso come il poeta che ci ha regalato opere immortali, da “Mamma Roma” a “Salò o Le 120 giornate di Sodoma”.
Scola era il regista degli ultimi e dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei derisi, degli illusi, degli ingenui, dei sognatori, degli utopisti, delle persone fragili, delle minoranze oppresse, di chi subisce tuttora innumerevoli ingiustizie, di chi si batte contro tutti i fascismi, di chi crede ancora in un’idea di umanità, di chi non accetta e non accetterà mai il mondo così com’è.

E poi amava i giovani, profondamente. Lo incontravo alle riunioni della sinistra romana ed era sempre presente, sempre disponibile, sempre attento alle ragioni e alle idee di coloro che considerava davvero il futuro del Paese. Lo incontrai anche una mattina a Trastevere, a margine di un incontro elettorale di Vincenzo Vita, e, seduti in un cinema d’essai, lui e Zavoli parlavano del loro Fellini con me al centro. Capii presto che non ne stavano parlando soltanto fra loro ma con me, come se fosse un altro “Amarcord”, il loro personale amarcord da trasmettere a un ragazzo affinché sapesse, scoprisse e si lasciasse coinvolgere dalle atmosfere e dai ritmi, dalle speranze, dalle follie e dall’abisso di anni fortunatamente remoti.

Ettore Scola apparteneva a un altro tempo ma era estremamente contemporaneo. Amava il prossimo e voleva lasciare il mondo migliore di come l’aveva trovato. Volendo affibbiargli per forza una definizione, potrei dire che è stato una sorta di Omero contemporaneo, il narratore per eccellenza di un’epopea realmente accaduta, il cantore delle vittime al cospetto dei carnefici, abile nello stigmatizzare la barbarie senza mai scadere nella retorica.
A Ettore Scola mi lega un sentimento di stima, di profondissimo affetto, di gratitudine. Cinque anni, troppi, per noi che siamo ancora qui a cercare il senso del nostro vivere quotidiano.
P.S. Quest’articolo è dedicato agli ottant’anni di Faye Dunaway, icona di bellezza e attrice simbolo di una stagione indimenticabile del cinema mondiale, e ai vent’anni di Wikipedia, l’intelligenza collettiva al servizio della conoscenza globale. A pensarci bene, è quanto di più gramsciano esista in questo triste mondo senza un’ideologia di sinistra.

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