‘La mite’. Il femminicidio secondo Dostoevskij

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Il teatro non si ferma.

Non vuole fermarsi in nessun modo e per nessun motivo. Così in tutta Italia si stanno moltiplicando le iniziative per trovare nuove strade, nuovi veicoli, per tenere “aperte” le sale, ma, soprattutto, aperte le menti e non tradire il pubblico della più antica delle arti, quella che ha un valore sociale capitale.

Si usa la rete, si usa lo streaming, le piattaforme digitali, si cerca di invitare lo spettatore a restare a casa ma godersi uno spettacolo confezionato fino in fondo e offerto con amore e professionalità.

Accade, così, che ci si ritrovi in questi ambienti digitali, in veri salotti virtuali, dove ci si può incontrare, dove spettatori si collegano da tutta l’Italia, non conoscendosi prima, e si scambino un saluto, due chiacchiere di presentazione prima dello spettacolo, magari con un bicchiere di vino tra le mani, con il cane sulle ginocchia, con la tuta di casa e senza trucco. Un pubblico selezionato, di veri amanti del teatro, non di signore che sfoggiano pellicce e messe in piega all’ultima moda. Così, si sperimentano nuove modalità, meno coinvolgenti? Forse. Più intime sicuramente.

E’ successo in una sera di novembre, in una giornata particolare di novembre, nella giornata dedicata al rifiuto della violenza sulle donne, al rifiuto di ogni forma di sopraffazione, al rifiuto del femminicidio; il 25 novembre, appunto.

Ed è successo grazie all’iniziativa del Teatro delle Spiagge di Firenze, dove,  da una rilettura e la regia di Nicola Zavagli, con l’interpretazione di Beatrice Visibelli, è stato portato in scena il racconto di Fëdor Dostoevskij, La mite.

Titolo del progetto è La mite, Il femminicidio secondo Dostoevskij.

Quando l’autore russo – vorrei dire l’Autore Russo, perché decisamente si tratta del più grande, del più profondo, del più intimo e solerte degli autori russi, di uno dei più grandi in assoluto, ed è inutile e superfluo dirlo – cominciò a scrivere il racconto, nell’autunno del 1876,  a Mosca si era verificata una consistente serie di suicidi.

In particolare, uno di questi aveva colpito la sensibilità dello scrittore: quello di una giovane donna, venuta da Pietroburgo, sola a Mosca, che si era lanciata dall’abbaino della sua abitazione stringendo al petto una icona della Madonna

In poche parole, la trama del racconto che ne ricaverà, appunto La mite.

Perché questa fanciulla compie una scelta così estrema, perché la chiama mite? Per incapacità di ricambiare l’amore, per senso di colpa? Per sfuggire ad un uomo che sente come estraneo?

Dostoevskij sceglie, per raccontare la tristissima vicenda, un punto di vista e una struttura narrativa inusuale. Quella dell’uomo che aveva sposato la fanciulla, un usuraio che le aveva garantito una vita agiata ma che lei non amava e aveva tradito. Il racconto ha la forma del soliloquio, di un monologo nel quale “un uomo cerca di fare il punto dei propri pensieri” (nota dell’autore al testo) e che, quindi, si risolve in una successione di pensieri che si smentiscono a vicenda, in un percorso a spirale che punta alla rivelazione della verità sui fatti, una verità sfuggente, che si nega e si capovolge ogni volta che sembra essersi chiarita.

La voce narrante risulta così quella di un uomo ridicolo, che afferma la sua verità, di fronte al cadavere della giovane moglie, in aperta opposizione alla verità altrui, quella ufficiale, restando, così, in totale solitudine.

Sembra, per questo, difficile, per il lettore, comprendere chi sia la reale vittima: se la mite, in realtà raffigurata come dotata di una remissività caparbia, o il marito usuraio, colpevole di aver voluto cambiarla, aver voluto farne una creatura propria e aver voluto, con lei e attraverso di lei, scontare colpe sue pregresse e mai superate.

Questa prospettiva di ricerca della verità e di se stesso è stata il fulcro della rappresentazione a cui abbiamo assistito, nell’adattamento di Nicola Zavagli, che ha individuato nell’usuraio il ruolo inconfutabile del carnefice. Con questa chiave di lettura è stato rivisitato il testo che viene scelto, appunto, per dare il proprio apporto alla giornata sulla riflessione sulla violenza sulle donne.

L’aspetto originale e calibrato su questa chiave di lettura è quello di avere affidato l’interpretazione del lungo monologo a una donna, l’attrice Beatrice Visibelli che dando voce al “carnefice”, si immerge nei labirinti oscuri della sua mente, con un inedito e sconcertante rovesciamento di prospettive e di ruoli.

Ne emerge una pièce appassionante, senza pietà né commozione, ma lucida nella sua acuta analisi dei fatti giustapposti uno dietro l’altro per dare fondamento alla tesi della vittima che diventa colpevole e del colpevole che si fa vittima.

In un palcoscenico piccolo, un uomo solo, avvolto in un pesante pastrano, si muove attorno al corpo coperto da un telo, quindi testimone ormai tacito, e spinge la sua confessione, che non avrà assoluzione, avanti e in dietro, sui tempi della narrazione che insegue il ricordo, il passato e il presente.

“Racconterò la storia come la capisco io”.

Sappiamo che Dostoevskij aveva una vera repulsione verso ogni tipo di spiegazione logica, psicologica o sociologica degli avvenimenti che si verificano fuori e dentro l’animo umano. Pertanto le domande, tante nel testo, resteranno senza risposta, mentre il pendolo continua a battere le ore, quasi a voler scandire la distanza tra il tempo della convenzione e la durata dei sentimenti, tra chronos e kairos.

La Visibelli ha un timbro di voce scuro al punto giusto per essere credibile nel ruolo maschile e, nello stesso tempo, una allusività nello sguardo che ci lascia intravedere l’alter ego nascosto che si domanda se la donna suicida, in realtà, fosse una creatura mite o un tiranno.

L’unica risposta che lo scrittore russo ci lascia è l’amara considerazione che “gli uomini sono soli sulla terra”

Le donne un po’ di più (ndr)


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