Mario Paciolla, professionista della pace

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Mario parlava sottovoce, si muoveva sapendo esattamente dove mettere i piedi. Viveva in un contesto di guerra, una di quelle guerre che fanno migliaia di morti ma che sembra non esistano per buona parte del mondo. Forse per questo sembrava avere un grande rispetto per il pericolo e per la possibilità che tutto potesse precipitare all’improvviso, nell’arco di un istante.

La prima volta che l’ho incontrato ero con Fabrizio Silani. Venivamo dall’Ecuador, avevamo seguito le orme di una troupe del giornale El Comercio che era stata sequestrata e poi uccisa sul confine con la Colombia. eravamo entrati per primi, nel villaggio di Mataje, ma la storia ci portava in Colombia per capire dove fosse  il gruppo armato che aveva ucciso i colleghi di El Comercio, il “Frente Oliver Sinisterra” un gruppo dissidente delle FARC che aveva rifiutato di consegnare le armi e di firmare i trattati di pace con il governo colombiano.

Mario quello scenario lo conosceva perfettamente. Conosceva tutti gli attori armati delle zone in cui la guerriglia è ancora attiva e continua a finanziarsi con la produzione ed il traffico di cocaina. Il caso volle che proprio nei giorni in cui lo abbiamo raggiunto a Bogotà, Mario avesse una missione importante tra le mani. Le Peace Brigades International, la Ong con cui lavorava all’epoca doveva scortare un gruppo di difensori dei diritti umani, tra cui Enrique Chimonja Coy che viveva sotto protezione per le minacce ricevute, sul Rio Naya, uno dei corridoi del narcotraffico più importanti della Colombia che dalla Cordillera Central delle Ande sfocia nel Pacifico. La missione consisteva nel trattare con i gruppi armati la liberazione di quattro leader sociali che avevano sequestrato nei giorni precedenti. Mario ci aveva portati nel porto di Buenaventura, tra gli sfollati del Rio Naya, sfuggiti alle violenze della guerriglia che controlla tutta la zona. Avevamo parlato con le mogli di quei quattro uomini sequestrati ma ignorati dalle autorità colombiane e dal mondo intero. La frase che ricordo meglio di quelle donne era molto semplice, tra le lacrime una di loro diceva che volevano che come afrodiscendenti fossero rispettati i loro diritti umani. Un quadro terribile di violenza e di assenza totale di regole e di istituzioni in grado di farle rispettare.

Mario non voleva essere intervistato. Diceva che i protagonisti del nostro racconto erano Enrique Chimonja Coy e gli sfollati del Rio Naya. La sua presenza, come quella degli altri volontari delle PBI eventualmente doveva servire solo a documentare la necessità che la missione aveva la necessità di una scorta di osservatori internazionali per garantire un livello minimo di sicurezza.

Sono riuscito a fargli poche foto. Una serie di scatti per prenderlo in giro mentre dormiva sul motoscafo che sfrecciava tra le mangrovie e un selfie che lo immortalava insieme a me e Fabrizio.

Quando siamo arrivati sul Rio Naya i guerriglieri avevano appena diffuso un video in cui annunciavano l’esecuzione dei quattro leader sociali sequestrati. Armati e con il volto coperto, i guerriglieri li raccontavano come nemici del popolo e della rivoluzione, ma in realtà cercavano solo di rispettare gli accordi di pace che chiedevano la conversione delle piantagioni di coca in colture legali.

È stata una delle esperienza più belle della mia vita professionale.

In quei giorni stava nascendo l’idea di Narcotica, il programma sul narcotraffico che ho fatto con Tg3 e Rai3, centrato sulle storie collaterali al narcotraffico, quelle dei campesinos, dei bambini schiavi nei campi di coca, dei giornalisti assassinati. Una idea che Mario ha condiviso fin dall’inizio e che mi ha aiutato a realizzare.

Ci siamo sentiti anche quando ha firmato il contratto con le Nazioni Unite. Mi ha passato i contatti ufficiali per chiedere una autorizzazione ad entrare con la telecamera nei territori dove vivono i guerriglieri delle FARC che hanno firmato i trattati e hanno deposto le armi. Ho inviato la richiesta alla portavoce delle UN ma l’autorizzazione non è mai arrivata.

Di Mario mi resta la sua voce nelle decine di messaggi vocali che mi ha mandato per farmi capire tutti i dettagli di quel paese e della sua storia di guerra dimenticata e la sua ostinata determinazione a lavorare per la pace.

Al fatto che potesse essersi suicidato non ho mai creduto.


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