Egitto: il laboratorio repressivo del Medio Oriente

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di Enrico Campofreda. Giornalista e scrittore

La guerra a bassa intensità, imposta dalla lobby militare del presidente Al Sisi non tanto ai jihadisti dell’area del Sinai ma a qualsiasi oppositore, è uno degli elementi più inquietanti della multiforme reazione ai moti delle Primavere 2011. La guida un uomo che sembra un buon padre di famiglia, con un aspetto apparentemente bonario.

La guerra a bassa intensità, imposta dalla lobby militare del presidente Al Sisi non tanto ai jihadisti dell’area del Sinai ma a qualsiasi oppositore, è uno degli elementi più inquietanti della multiforme reazione ai moti delle Primavere 2011. Se nell’ampia regione fra Mashreq e Maghreb sono tuttora in corso guerre e stragi di civili, come in Siria, o azzeramenti della forma Stato, in Libia, è nella più grande nazione araba che la reazione sperimenta una repressione al tempo stesso spietata e sofisticata. La guida un uomo che sembra un buon padre di famiglia, un volto talmente bonario che avrebbe potuto sorridere dell’ironia con cui un noto rapper lo rappresenta, definendolo balaha nel suo omonimo video musicale.

Balaha significa “dattero”, un po’ come la faccia pasciuta e il corpo basso e tozzo dell’ex generale. In realtà a chiamarlo così è la stessa gente d’Egitto, lo fa chi lo disprezza e chi lo teme. Ovviamente quest’ultimo lo dichiara a mezza bocca, fra conoscenti fidati, perché le orecchie dei mukhabarat [i servizi segreti] o dei loro spioni prezzolati sono sempre in agguato. Quel che è accaduto di recente, non al rapper Rami Essam che con l’aria che tira nel Paese da tempo ha preso un volo per la Svezia, ma a un incauto fotografo e regista, Shadi Habash, conferma i timori personali e la crudele realtà quotidiana.

L’ESCALATION DELLA REPRESSIONE

Per il video Balaha, che ovviamente spopola sui social, il ventenne Habash – ahilui – rimasto in Egitto è finito in galera. Non in un carcere qualsiasi, ma nella sezione Scorpion di Tora dove polizia e Intelligence locali trascinano i cittadini infedeli al culto del presidente. Shadi c’è rimasto due anni, per uscirne stecchito a inizio maggio. Non è dato sapere la causa della morte.

Quando i militari iniziarono il repulisti, nell’autunno 2013, era da poco avvenuto il golpe bianco che depose il presidente eletto Morsi, Fratello musulmano e unico Capo di Stato non militare dell’Egitto post monarchico. E c’era stata la mattanza della moschea Rabaa al-Adawiyya, una ventiquattr’ore di sangue con cui fra i mille e i duemila attivisti della Confraternita islamista (il numero dei morti è rimasto sempre segreto) vennero passati per le armi da esercito e polizia.

Quella gente era accampata all’aperto, davanti alla moschea, protestava con un gigantesco sit-in per l’incostituzionale rovesciamento di Morsi del mese
precedente. Furono uccisi singolarmente con armi leggere, presi a fucilate, uno per uno. Non solo la strage passò quasi inosservata agli occhi della politica internazionale, ma tante anime belle della democrazia interna e mediorientale appoggiavano “l’esercito del popolo” che ristabiliva l’ordine contro l’islamismo dilagante.

«Prima vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubavano…» il famoso sermone del pastore Niemöller s’adatta perfettamente alla scalata repressiva messa a punto, mese dopo mese, dal nuovo dominus della “cricca delle stellette”.

LA “CRICCA DELLE STELLETTE”

Essa – neppure uno Stato nello Stato, ma semplicemente lo Stato – trovava nell’ambizioso Sisi un uomo d’immagine e di elaborazione per riprendere
in mano il controllo d’ogni organismo nazionale che aveva subìto l’euforia dell’idea di cambiamento di piazza Tahrir.

Dal Parlamento alla magistratura, fino all’informazione e ai sindacati. Forse solo l’Intelligence serbava quel rapporto diretto con la vecchia guardia dei feloul [letteralmente “gli avanzi” termine con il quale si indicano i fedelissimi di Mubarak]. Ma anch’essa andava rivisitata, per evitare gli affarismi personali di soggetti come Shafiq, il politico su cui puntavano i “mubarakiani” dopo la caduta del raìs, e che invece fu sconfitto nel confronto alle urne con Morsi. Dopo aver assassinato e arrestato migliaia di militanti della Brotherhood l’autoritarismo militare puntò altrove.
L’opposizione liberale e socialista d’Egitto, i signori El Baradei, Moussa, Sabahi e soci capirono chi fosse Sisi e come volesse agire, quando dopo l’investitura presidenziale del 2014, si trovarono nuovamente i carri armati in piazza. Puntati stavolta non contro la Fratellanza Musulmana, da essi stessi odiata, ma contro ogni protesta, ogni gesto, ogni parola. Anche riunioni private ricevevano le visite poliziesche; militanti e sindacalisti venivano colpiti dal piombo com’era accaduto alla gioventù ribelle del sogno di primavera. La stretta sull’opposizione, che aveva rinchiuso gli attivisti del “6 Aprile”, continuava sui giornalisti.

GUERRA ALLE ONG: “MINACCE” ALLA SICUREZZA

Con l’accusa di “attentato alla sicurezza nazionale, complotto e terrorismo” venivano incarcerate migliaia di persone, gente che s’esprimeva per via, sui blog, sui social media. Accanto a galere riempite sino all’inverosimile, a ripetute torture, a sevizie sessuali – peraltro già praticate durante l’interregno sempre militare del Consiglio supremo delle Forze armate che agì dal marzo 2011 al giugno 2012 – le sparizioni di persone, giovani uomini e motivate ragazze, sono diventate sempre più frequenti.

Fra quest’ultime operatrici di Ong e avvocati dei diritti, poste a difesa di accusati e accusate esse stesse di collusione con un fantomatico terrorismo. Verso il vero terrorismo, autore inizialmente di attentati anche nella capitale e di agguati contro l’esercito, la lobby militare pratica operazioni di facciata che non sradicano i gruppi jihadisti. La loro sopravvivenza giustifica lo stato d’assedio perenne, allargato all’intera popolazione metropolitana e rurale. Il gruppo di potere Al Quwwāt Al Musallahat Al Misriyya – le moderne Forze Armate che col motto “vittoria o martirio” hanno tracciato la via dell’Egitto contemporaneo – conta 480mila soldati effettivi (30mila gli avieri e altrettanti i marinai) e mezzo milione di riservisti immediatamente disponibili.

Ma l’età di abilità alle armi, compresa fra i 18 e i 49 anni, può portare più d’un terzo degli egiziani (35 milioni d’individui) a rivestire quell’uniforme. Del resto le Forze armate della vittoria e del martirio, occupano pur sempre la dodicesima posizione fra gli eserciti del mondo. Al cordone ombelicale della divisa indossata e vissuta come un’appartenenza, s’aggiunge l’interesse economico per chi lavora nell’esercito e per l’esercito.

LA LUNGA MANO DEI MILITARI

Le mani dei militari sono ovunque: dall’edilizia alla logistica, dall’agricoltura alla manifattura, dal commercio al turismo, chi vuol lavorare deve rapportarsi a loro. Le aziende controllate da generali e ufficiali e dai propri compari non solo rappresentano una potenza con cui imprenditori e tycoon locali – laici e d’ogni fede come Sawiris o Al-Shater – hanno dovuto fare i conti, ma condizionano il salario e la coscienza di milioni di egiziani. Questo spiega l’acquiescenza d’una grossa fetta della popolazione, i silenzi davanti ai soprusi, lo sguardo rivolto altrove, il mesto tirare a campare. Magari vagheggiando la grandezza patria rilanciata da quegli specchi dell’illusione che, come ogni megalomane del potere, Sisi prospetta coi progetti della nuova capitale e del raddoppio del canale di Suez.

IL “CASO REGENI”

Nel 2016 come una bomba scoppiò il “caso Regeni” con tanto di pedinamenti, sequestro, sevizie, uccisione del ricercatore friulano trapiantato a Cambridge e attivo al Cairo per ricerche sui sindacati indipendenti. Differentemente da altri omicidi politici il cadavere venne ritrovato, sebbene poi vari organi della sicurezza hanno operato depistaggi, occultamenti di prove, ostacoli alle indagini anche quella della Procura di Roma.

L’omicidio Regeni e la sua gestione possono essere considerate una linea di confine nel grande disegno repressivo del ceto militare egiziano. Poiché se da una parte la società civile internazionale dormiente ha avuto la prova inconfutabile d’un disegno criminoso mascherato da gestione democratica della vita nazionale, l’impossibilità di scardinare il muro di gomma creato dal regime ha sdoganato quell’illegalità che toglie il respiro alla nazione e la vita a chi la vorrebbe diversa. La prassi del tempo sospeso e della “libertà” vigilata è l’infame passo con cui una magistratura complice aiuta i militari a soffocare la vita quotidiana e l’esistenza di tanti egiziani.

IL CASO DI PATRICK ZAKI

Funziona come per Shadi. Hai compiuto un gesto di protesta o una beffa verso gli uomini di potere? Peggio per te. Sei considerato una mina vagante per la sicurezza dello Stato. Perciò vieni fermato, interrogato, magari malmenato, se reagisci torturato e accusato di resistenza e violenza. È un comportamento registrato anche altrove, lì dove il potere fa abuso del suo potere.

Ma questo regime fa di più: ti piega mentre simula una carezza. Pur considerato un pericolo, finanche un potenziale terrorista, ti libera. Applica lo stop and go: la detenzione, la scarcerazione e una nuova detenzione che illude chi le riceve creando frustrazione, depressione, paura dell’oggi senza domani. Crea il tempo in bilico, una vita incatenata al prossimo arresto. Ad libitum.

Sta accadendo allo studente universitario Patrick Zaki, in perpetua “custodia cautelare” ogni quindici giorni, seppure fra poco i giorni diventeranno quarantacinque. Un’esistenza dilatata per seppelliti vivi, in attesa della dipartita. La storia di Zaki è finita sui media perché il giovane studiava a Bologna, ed è stato arrestato solo per un pensiero incollato su un noto social media. Ma in Egitto esistono migliaia di Zaki di cui nessuno parla, lo fanno solo amici e sodali attraverso una flebile rete di sostegno.

Il regime di Sisi è colpevole di repressioni stragiste e assassini mirati, tiene in galera oltre sessantamila oppositori, giornalisti, avvocati e semplici cittadini, attua la descritta sospensione della vita. Alla quale ultimamente s’aggiunge un’altra bestiale “raffinatezza”: la repressione trasversale. Per punire qualcuno di presunti reati, se l’accusato è riparato all’estero, si arrestano i congiunti rimasti sulle rive del Nilo. È un sistema scellerato verso cui il cosiddetto mondo libero, che si batte per i diritti dell’umanità, non può restare a guardare come se nulla stesse accadendo. Rivolgendo il pensiero all’affarismo del gas, al mercato dei caccia Rafale, dei carri Abrams, degli elicotteri Leonardo, delle fregate di Fincantieri. O sognando i resort

Da confronti

 

 


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