Gigi Simoni, l’eleganza di essere diversi

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Ronaldo ha un fisico da pugile, potente ed esplosivo ma sul campo di calcio si muove come un ballerino, elegante come Nijinsky e veloce da togliere il sonno ai suoi marcatori, capacità psicomotorie da extraterrestre: riceve un pallone da centrocampo, salta il difensore, finta sul portiere, Luca Marcheggiani, lo elude e deposita il pallone nella porta vuota. Gigi Simoni fino a quel momento teso, sebbene felice − la sua Inter sta vincendo due a zero la Finale di Coppa Uefa contro la Lazio −, esplode nel suo sorriso per una volta meno malinconico del consueto, meno trattenuto, meno piegato dalla ineludibile traccia di quella sardonica compostezza che gli fu compagna di vita, abbraccia i membri della panchina che gli saltano al collo. Guarda l’orologio, è il settantesimo minuto della sua finale e finalmente ha vinto qualcosa. Simoni lo voglio ricordare così, tralasciando la tristezza e l’iniquità di ciò che pochi giorni prima aveva segnato la sua carriera e indelebilmente il mondo del calcio a seguito di uno degli episodi più discussi e sconcertanti dello sport moderno. Dimenticando che dopo aver battuto tre gol a uno il Real Madrid con una doppietta di Roberto Baggio, entrato da pochi minuti in sostituzione di uno spento Ivan Zamorano per sua intuizione, venne inopinatamente esonerato dal presidente Massimo Moratti, per sostituirlo con un mediocre allenatore che poi non andò oltre l’ottavo posto in campionato. Lo stesso Moratti che pure, solo un anno prima, lo aveva scelto, per la sua esperienza e la sua signorilità alla guida di una squadra che nel fenomeno brasiliano riconosceva la sua stella.

Gigi Simoni fu un uomo pacato e onesto oltre la capacità della nostra società, del nostro sport, di percepirne la grandezza. Mai sopra le righe, sempre in grado di comprendere ciò che accadeva attorno lui, attraverso l’umanità che trasforma una semplice gentilezza in un atto di amore verso lo sport, verso il calcio, che fu la sua professione, la sua vita, la sua gioia e il suo tormento. Quello di un atleta di talento, di un allenatore di genio e rigore che non ebbe mai con sé la buona sorte, se non forse quella notte del 1998, il 6 maggio per la precisione, di cui appena si è fatta menzione.

Simoni fu prima ala tecnica e quindi mezzala di notevole classe. Esordì nel grande calcio con Edmondo Fabbri che portò il Mantova  − giocava, si disse, come il Brasile  − dalla B alla A, anche per merito dei suoi gol.

Realizzò, da calciatore, le sue migliori stagioni con il Torino – la sua quadra del cuore – dello sfortunato Gigi Meroni, collezionando alla fine tra il 1964 e il 1967 ottantuno presenze e diciotto gol. Una fugace apparizione nella Juventus, quindi il Brescia e poi il Genoa dove finì la carriera di calciatore nel 1974. Subito, lui che in fondo lo era sempre stato, divenne allenatore proprio del Genoa. Alla fine saranno diciotto le squadre che allenerà, tra queste la Cremonese portata in A e seguita per 4 anni, il Napoli e anche il CSKA Sofia nel 2001-2002 nell’unica sua esperienza internazionale.

Ora che Simoni non c’è più, resta la sensazione che la sua parabola sportiva sia ancora più bella nell’assenza di un lungo elenco di trofei. Che nel suo rimanere sempre sospeso vi sia la perfezione aurea di una indubitabile superiorità, la superiorità di essere diversi, di essere grandi senza doverlo dimostrare. Con il guizzo di quella coppa a lasciare una impronta sul suolo di cemento.

Nel 1997 all’Inter Simoni aveva avuto la capacità di costruire attorno a lui una squadra che esaltasse le doti di Ronaldo, una squadra con dei limiti, se si escluda l’estro di Youri Djorkaeff e la costanza di Javier Zanetti e del ‘Cholo’ Simeone, eppure tra le più riuscite formazioni nerazzurra di sempre. E certo il merito era stato anche di Simoni che non ebbe mai appieno ciò che avrebbe meritato, anzi la vita gli tolse molto, anche un figlio appena trentenne, ma che seppe fare il suo lavoro con tenacia indomabile e l’eleganza sottotraccia di un irregolare dandy.


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