Il vuoto come risposta alla fede. Antonius Block nel medioevo attuale di Ingmar Bergman

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Vi sono attori che rimangono legati a un ruolo che li trasforma in icone, che si identificano talmente in esso da diventarne il nome. Altri attori grandissimi che si mimetizzano così bene nei personaggi interpretati da essere trasparenti, da scomparire nelle voci e negli sguardi delle vite altrui rimanendo così sconosciuti quasi e irriconoscibili. Max Von Sydow, appartiene a una categoria ancora diversa, con il profilo nobile e volitivo di un guerriero medioevale, le movenze eleganti di un ballerino e lo sguardo freddo di un serpente, penetrante e letale come solo una profonda intelligenza lo può essere, ha scritto la storia del cinema in un solo film, interpretandone poi innumerevoli altri, sempre con magistrale dedizione e bravura, ma dando l’impressione che in quel film, un film per la verità corale, tutto si potesse esaurire. Il Settimo Sigillo è un film assoluto. Un film che in sé li contiene tutti. Un’opera che basterebbe al cinema da sola.

Antonius Block è il protagonista di questa incredibile danza macabra, ove, sullo sfondo di un medioevo indistinto, in mezzo ai suoi boschi, nelle vallate più isolate, ma anche nelle case pare possa annidarsi l’orrore e la meraviglia, i demoni braccano le anime e la morte è l’unica certezza sull’orlo del precipizio inevitabile. Dietro la calma di Antonius, che pare imperscrutabile, si aggrovigliano le più laceranti esitazioni e di fronte a quello che crede un padre confessore ma che si rivelerà essere la morte con la quale ha iniziato un’allegorica partita a scacchi, la sua si porrà come una confessione al contrario, domandando al tramite divino una risposta ai propri dubbi senza concedersi a un troppo facile abbandono: «Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico».

Il pittore dipinge la peste sui muri della chiesa perché lo vuole l’autorità. Perché gli uomini, vacillando la fede e sprofondati nel male, possono obbedire solo alla paura: la paura sensata della peste e quella insensata, forse, della punizione divina che agisce attraverso il germe ma che lo usa anche come veicolo di controllo nell’inquietudine della perdita di certezze. La pestilenza è una certezza che deve essere controllata. Il controllo della pestilenza è il controllo delle anime. Se Dio non vuole proteggerci dal male dobbiamo chiedergli perché, oppure implorarlo. Ecco che il corteo dionisiaco si tramuta in quello dei flagellanti che attraversano i villaggi. Le menadi sono incoronate dalle spine di Gesù Cristo e non dalle frasche d’alloro. Il Tirso è una croce pesante sotto il cui peso i penitenti si piegano, la carne della preda è strappata con il flagello dai corpi peccaminosi. La danza è scandita dalle prediche farneticanti e terribili di un Dioniso terreno e ciarlatano che manifesta la sconfitta della liturgia come rito collettivo e la trasforma in uno sterile ultimo appiglio prima del vuoto, in una danza ritmica ossessiva scandita dai lamenti. Il vasto nulla in cui gli occhi della strega – bruciata viva nella selva, di notte, lontana dagli sguardi impauriti degli uomini, lei accusata di essere l’origine della peste – sprofondano prima di chiudersi tra le fiamme. Block coglie in quello sguardo smarrito nel proprio dolore la fine di ogni speranza. Il totale senso di nulla se la fine di una trasmissione nervosa spegne il cervello per consegnare la percezione al niente. Eppure in Block resta l’umanità di drogare la fanciulla che sta per morire, di lasciarla lievemente, lei convinta dalle torture o dalla mitomania di incarnare davvero il male, al proprio destino, perché in fondo vivere si traduce in un aspettare di perdere la partita a scacchi. Lo sguardo allucinato della strega è forse quello di ognuno tra i martiri nell’attesa del tormento, svelato il mistero della fede, un velo di Maja sull’abisso perché la dolce speranza della salvezza è solo un’allucinazione. Come quella indotta da una droga o dalle parole funeste di un officiante.

Antonius Block infine, e qui è la fessura di luce che taglia le tenebre, avvicina la propria sconfitta nella partita a scacchi, per salvare, distraendo la morte, chi ne è degno, chi si fa veggente, profeta, attraverso l’orfismo vitale dell’arte. Come il male può liberamente abitare in Dio così Dio, che conosce la mancanza, può colmare il vuoto. Il divino è nella strada che si percorre per raggiungere la divinità.

Max, involontariamente, ha predetto il nostro vacillare della civiltà e ora ha chiuso i suoi occhi trasparenti al mondo lasciandoci domande a cui non si può rispondere ma che si devono di certo ascoltare.


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