Giorno della Memoria: Edith Bruck e la necessità di ricordare, soprattutto con i giovani. Come si vive il ruolo di testimone?

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Ogni volta che entro nelle scuole già stanca morta, ne esco viva», esordisce così Edith Bruck, autrice di romanzi, saggista, poetessa di origini ungheresi sopravvissuta ad Auschwitz e dunque testimone diretta, suo malgrado, della tragedia della Shoah, che da tanti anni s’impegna a sensibilizzare, senza mai risparmiarsi, in particolare in vista del “Giorno della Memoria”. «Sono affaticata – dice –: questa settimana ho incontrato molti studenti e partecipato a diversi convegni e incontri dedicati alla Shoah, questo pomeriggio [sabato 18, nda] ospiterò a casa tre studenti con il loro professore per raccontare la mia storia davanti alle telecamere della scuola». I giovani per lei sono «il barlume di speranza per un mondo migliore. Con loro condivido il mio vissuto e ciò che di terribile è accaduto nell’Europa del ’900. È difficile parlare solo di Auschwitz con i disastri che viviamo ogni giorno. Siamo circondati e stravolti dalle tragedie. Proprio per questo, malgrado la stanchezza iniziale che mi assale ogni volta che devo entrare nelle scuole, e dopo le quattro ore di dialogo con gli studenti ai quali racconto le più profonde intime sofferenze, esco da quegli incontri viva, vitale. Per me incontrare gli studenti è una terapia».

Che cosa le chiedono gli studenti?
«Risposte a grandi domande: com’è stato possibile arrivare a una tale violenza, allo sterminio di milioni di ebrei, di rom e sinti, di dissidenti politici, di persone con disabilità, di persone considerate “diverse”? Come poter riconoscere il male? Il loro approccio alla sofferenza è simile al mio, esperienziale, anche loro possono essere vittime di bullismo, di odio, di violenze, di derisioni sia tra le mura scolastiche, sia tra quelle domestiche».

I giovani la considerano una confidente?
«In un certo senso, sì. La Shoah e la Seconda Guerra Mondiale sono per molti giovani solo pagine di storia da studiare. Una tragedia difficile da inquadrare e sentire come vicina. Il racconto diretto di quelle vicende li avvicina alla tragedia. Grazie all’empatia che s’innesca quelle pagine di storia divengono reali. Per molti studenti la tragedia della Shoah finì dopo la liberazione del campo polacco di Auschwitz il 27 gennaio 1945 da parte dell’Armata rossa, non sanno che proseguì invece in altri campi di sterminio presenti in Germania (ben 1635) e in Europa».

Dunque, qual è il suo obiettivo?
«Aiutarli nella comprensione dei fenomeni attuali e storici, far loro aprire gli occhi, mostrar loro ciò che accade intorno a noi, a reagire alle ingiustizie vicine a noi e presenti nel mondo. A rispondere e intervenire quando si osservano iniquità; a comprendere che solo attraverso l’umanità è possibile salvare la stessa umanità».

Che cosa la preoccupa guardando i giovani che incontra?
«Che alcuni di loro non si rendono conto di quanto sia pericoloso l’antisemitismo. Talvolta, alcuni giovani, mettono in atto azioni razziste e xenofobe spinti da atteggiamenti di intolleranza. Giovani che spesso sono stati lasciati soli, una débâcle legata alla mancanza di guide morali e politiche autorevoli, spesso anche genitoriali, che ha spinto molti di loro a trarre ispirazione da esempi negativi, nefasti, pensando di trovarvi la famiglia mancante, affiliandosi a “branchi” – gruppi –, per cercare un possibile posto nel mondo».

La testimonianza diretta è l’unico antidoto al negazionismo?
«Nessuno, più di quanto possa fare un testimone diretto, può raccontare la Shoah, le violenze subite raccontate attraverso la voce, spesso tremolante, lo sguardo carico di lacrime inesplose, i tentennamenti sono altrettanto efficaci. Anche il grande cinema non può aiutare alla comprensione di una tragedia di tale portata. Inspiegabile attraverso la parodia, il semplicismo narrativo; non lo si può fare con la commedia, non lo si può fare con le fiction televisive o le grandi produzioni hollywoodiane. L’unica via percorribile è quella dei documentari originali, di repertorio».

Lei è credente? Ha fede? È riuscita a perdonare?
«Non posso perdonare ciò che è stato fatto da altri, posso perdonare me stessa, così insegna l’ebraismo. Rispondere alla domanda se credo in Dio, non è facile. La fede è una questione intima, personale. Quando sono disperata invoco mia madre, lei per me è Dio. Ritengo di non essere degna di poter toccare il libro delle preghiere. Quando lo dissi per la prima volta a mio marito Nelo [Risi, ndr] mi disse: “Non ho mai visto una persona più religiosa di te”. La religione ritengo che debba essere un comportamento etico e morale da tenersi nella vita; e che si esprime attraverso il rispetto per il prossimo».

Queste testimonianze tolgono la speranza?
«Mi rendo conto di togliere spesso la speranza. Non ho mai raccontato tutte le atrocità che ho visto, ne ho sempre avuto pudore. Il “ruolo” del testimone non è facile. Preferisco diffondere la speranza, e raccontare cinque gesti che mi hanno dato la forza di andare avanti. Cinque episodi positivi di soldati tedeschi avvenuti durante un anno di prigionia: una mano tesa con una patata calda; una mano che mi ha donato un guanto bucato; una che mi lanciò addosso una gavetta con un po’ di marmellata dentro; e una bocca, che aveva chiesto il mio nome, un vero miracolo, un gesto di luce immensa e impossibile in quel luogo di morte. Infine, un soldato che doveva uccidermi, e che ha deciso un secondo prima di premere quel grilletto della pistola appoggiata alla mia nuca, di non farlo: un secondo miracolo. Gesti che mi hanno fatto capire che c’era ancora un po’ di umanità e che, in fondo, forse, valeva la pena non lasciarsi andare, che c’era ancora un po’ di luce in fondo al buio, come lo era quella marmellata lasciata nella gavetta».


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