Hong Kong grida nelle urne: “Attenta Pechino!”

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“Attenta Pechino!”: è questo il grido che si leva dalle urne di Hong Kong, dove il partito per la democrazia ha ottenuto il 90 per cento dei consensi e altrettanti seggi alle elezioni distrettuali, confinando i filocinesi in una minoranza quasi imbarazzante. Imbarazzante, se si considera l’inadeguatezza della governatrice Carrie Lam: una figura sbiadita che, per il bene comune, dovrebbe passare la mano, essendo palesemente inadatta a gestire una crisi che non si risolverà fino a quando il governo cinese non si siederà a un tavolo di trattativa. Imbarazzante, se si pensa a ciò che ha affermato il ministro degli Esteri, Wang Yi, il quale sta davvero gettando benzina sul fuoco, senza rendersi conto che continuare a ribadire che Hong Kong era e resterà cinese è il miglior modo per scatenare un inutile bagno di sangue che non fa gioco a nessuno, meno che mai a una Nazione intenta ad accreditarsi agli occhi della comunità internazionale come nuova culla dei valori liberali.

Imbarazzante, se si considera il fatto che la democrazia sta assumendo dei contorni vieppiù farseschi, alla luce di quanto sta avvenendo in Asia ma, più che mai, del vento globale che spira pressoché ovunque, con la mancanza totale di rispetto nei confronti delle minoranze e dei popoli oppressi. Imbarazzante, se si considera che la protesta dei cittadini di Hong Kong contro la legge sull’estradizione e le loro rivendicazioni, alcune delle quali ineccepibili, si scontrano con la realtà di un regime che, giunti a questo punto, non può cedere di un millimetro, pena la sconfessione di se stesso. Imbarazzante, infine, se ci si pone la domanda su chi ci sia realmente dietro una battaglia a coltello come quella cui stiamo assistendo dal giugno scorso.

Duole dirlo, ma il sospetto è che dietro le proteste di Hong Kong ci sia qualche manina straniera, probabilmente a stelle e strisce, in quanto lo spontaneismo sarebbe stato credibile se non fossero durate così a lungo e non avessero dato adito al sospetto che sia in atto il tentativo di destabilizzare una regione la cui coesione e stabilità potrebbe mettere definitivamente in discussione la supremazia di un paese, gli Stati Uniti per l’appunto, che al momento non sa ancora concepirsi in un contesto multipolare.

Basterebbe questo per auspicare un cambio di rotta, e di amministrazione, alle Presidenziali del prossimo anno. Il timore diffuso, infatti, è che un Trump indebolito dalle inchieste giudiziarie e fiaccato dai dubbi circa la liceità del suo operato potrebbe persino cercare di trovare una via d’uscita attraverso un conflitto ad alta intensità, anche se non militare, con il Dragone in ascesa, e la costante distruzione di tutti coloro che hanno provato e continuano a provare a opporsi al suo predominio o, per meglio dire, alla sua sopravvivenza.
Mettere in difficoltà la Cina e i suoi satelliti, devastare il Sudamerica, rinverdendo la stagione in cui le amministrazioni repubblicane lo consideravano il “cortile di casa” e il pascolo privilegiato delle multinazionali americane, mettere in scacco e favorire la disintegrazione dell’Europa e disinteressarsi dell’Africa, eterna frontiera dell’umanità e nuovo sbocco delle ambizioni cinesi, è una strategia tanto cinica quanto, ahinoi, a quanto pare, fruttuosa a livello elettorale. E Trump non è uno statista, non è nemmeno un politico: è un magnate imbottito di soldi che è arrivato dove non sarebbe mai dovuto arrivare a causa di un’evidente crisi della democrazia statunitense e dell’incapacità del Partito Democratico di porsi in sintonia con le richieste del vastissimo universo che non si riconosce nel sovranismo trumpista ma neanche nel tardoliberismo clintoniano, ormai fallito ovunque.

Hong Kong, ribadiamo per l’ennesima volta, è lo spartiacque dell’era moderna. Comunque vada, sarà una catastrofe: se dovesse prevalere il trumpismo, rischieremmo una Guerra fredda ancor più calda di quella che ha scandito i primi quattro decenni del dopoguerra; se dovesse prevalere Pechino, il concetto stesso di democrazia liberale, almeno per come l’abbiamo inteso fino a oggi, sarebbe irrimediabilmente compromesso. A meno che l’Europa non decidesse di esistere come comunità politica, ma non ci sembra che abbia ancora la lungimiranza per capirlo e una classe dirigente in grado di realizzare questo sogno.

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