Ergastolo ostativo e civiltà carceraria

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Prima di parlare di ergastolo ostativo andrebbe affrontato quello della pena perpetua dell’ergastolo: Nel primo caso, i fatti reato hanno riguardato più azioni antigiuridiche commesse in considerazione del vincolo di appartenenza al regime dell’associazione illecita, nel secondo, invece, seppur conseguenza penale decisa dal giudice per la commissione di azioni eclatanti e dirompenti, avvenute all’interno del contesto sociale, fino a determinare la rottura di quel patto sotteso e con gli strascichi derivati dall’allarme sociale provocato, non si rileva la sussistenza di quelle affiliazioni di cui sopra. Partendo dall’assunto che sia nell’uno che nell’altro caso le motivazioni che risiedono nella scelta di delinquere non sono mai ragionevoli, ma dettate da questioni di ignoranza, superficialità, cultura della gerarchia, della prevaricazione e del potere, oltre a un malsano contesto di vita vissuta, il principio della responsabilità ci impone di considerare tali faccende cum grano salis e in maniera diversificata. Nel caso dell’ ergastolo ostativo, oltre alla collaborazione impossibile, viatico di attestazione giuridica che chiude la possibilità di ulteriori interventi processuali o per sopraggiunta morte dei correi o per impossibilità di procedere ulteriormente nei confronti del condannato, rimangono in piedi le informative delle direzioni distrettuali antimafia che nelle lunghe successioni temporali, hanno ribadito le appartenenze alla criminalità organizzata con formulazioni che non” le escludevano” senza fornire motivazioni attuali e concrete che attestassero tale mancanza di esclusione. È chiaro che l’unico intervento possibile è da ricondurre alla rieducazione penitenziaria, ma, così come non esiste quel concetto, tanto invocato,  di certezza della pena, annoverato come immanente principio giudiziario, allo stesso modo, non esiste una rieducazione totalmente ed effettivamente capacitante  di socializzazione, essendo essa esperimento di discrezionale valutazione della magistratura di sorveglianza, sempre e in ogni caso decisione che ben si inserisce nell’ambito della c.d. società del rischio.

Ciò che appare di difficile comprensione alla popolazione ristretta è un andamento intramurario privo di sbavature, lineare, ma non ancora meritevole di sperimentazione esterna, e, in termini di ragionamento pedagogico, se si sostiene la validità e l’attuale rilevanza dei percorsi di trattamento, è paradossale ricordare dell’indispensabile apporto professionale dei funzionari pedagogici, di servizio sociale e degli esperti psicologi solo quando il diritto non riesce a risolvere contraddizioni da tempo e da più parti evidenziate. È fuori dubbio che la pena perpetua sia in contrasto con i più elementari principi di umanità ma la legge, anche quella penitenziaria, riconosce il carattere di gradualità del trattamento, per cui ridiscutere dell’ergastolo sarebbe già di per sé un elemento di appropriazione di civismo. Tuttavia, nel caso dell’ergastolo ostativo, non è tanto la rieducazione il nodo focale dell’azione dell’esecuzione penale ma è lecito pensare a quanto sia necessario da un lato, lavorare nello scostamento dal registro comportamentale e comunicativo della subcultura penitenziaria e dall’altro, sul conflitto che può sorgere tra l’essere ( cementificato nell’idea che si ha di sè e maturata anche dalla percezione altrui) e il suo divenire. Se un contesto chiuso non aiuta perché congela a relazioni per lo piu’ obbligate, e se le famiglie rappresentano l’evidente istituzione di una tradizione da cui bisogna emanciparsi per dare vita a se stessi come essere nel mondo, le attività trattamentali non possono essere di per sé sufficienti a garantire con certezza quel risultato verso cui la legge orienta. E allora bisogna riflettere non sulla pena ma su concetti quali azione e colpa, superando il latino “crimen” e volgendo l’attenzione verso il sanscrito “karman”- l’agire generatore di conseguenze – come spiega l’autorevole filosofo Agamben nel suo saggio dal titolo Karman.

In alcune sezioni detentive si ammassano ristretti di diverse nazionalità che non hanno specificità professionali, non hanno riferimenti sul territorio, non hanno possibilità di mantenersi alle spese personali, sono giovani e a volte, con problemi. Sarebbe giusto che si rinforzasse la possibilità di recupero dei c.d. vinti, della percentuale che fa del carcere una discarica sociale, perché risolvere l’ergastolo è sì atto di civiltà ma non si può tacere, oggi, quanto la popolazione di media sicurezza rappresenti quello scarto che forse paga più duramente le contraddizioni di un sistema penale mal funzionante. Esso genera un circuito di illegalità che solo una rinnovata filosofia dell’educazione condotta con politiche sociali mirate, dentro, ma soprattutto fuori dal carcere, potrà tentare di arginare.


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