Giornalismo sotto attacco in Italia

Il giudice Sergio Moro e la moglie di Cesare

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Il giudice brasiliano che ha condannato a 9 anni e mezzo di carcere per corruzione l’ex Presidente Lula da Silva assumerà come ministro della Giustizia del suo più acerrimo nemico politico, il neo capo di Stato Jair Bolsonaro. La notizia è ufficiale, diffusa e confermata dallo stesso diretto interessato già nei giorni scorsi. E come ci si poteva aspettare, ha suscitato polemiche aspre e insinuazioni d’ogni tipo, anche in ambienti che apprezzamento per Lula non ne hanno mai avuto. Ma ancora tengono un po’ alle forme. In primis, non pochi colleghi del magistrato.

In via di diritto, infatti, nulla vieta a Sergio Moro di svestirsi della toga e di quanto nell’opinione brasiliana prevalente gli resta della terzietà del giudice, per mettersi in politica e assumere un ruolo tanto significativo nel governo dell’estremista di destra Bolsonaro. Tanto più se -come ha detto e non era difficile intuire- ne condivide da sempre il programma di compressione dei diritti. Hanno provocato nondimeno sorpresa e disagio tempi e modi della sua decisione. Dal processo sostanzialmente indiziario a Lula è trascorso poco più d’un anno e ancora recentemente egli riaffermava di voler restare nell’ordine giudiziario.

A Curitiba, dove Moro ha vissuto e svolto il suo ufficio d’inquirente e giudicante, ricordano che egli ha sempre tenuto ad apparire oltre che essere imparziale, anche per mitigare l’impressione di forte severità spesso accusata di volontà persecutoria non soltanto dagli accusati. Negli ambienti politici di Rio spiegano però che a mettergli fretta fino al punto di indurlo a rompere immediatamente ogni indugio, sarebbe stato Bolsonaro in persona. Il Presidente è interessato a giustificare con la lotta alla corruzione il suo programma marcatamente repressivo. E il volto del magistrato delle “mani pulite” brasiliane gli presta credibilità.

In un messaggio all’Associazione Nazionale dei Giudici Federali, Moro si è giustificato l’altro giorno affermando di identificarsi con l’italiano Giovanni Falcone, del quale intende seguire l’esempio. Ha fatto però un po’ di confusione. Poiché Falcone ha sacrificato la vita nell’affrontare non la pur nefasta corruzione tra affari e politica, bensì i vertici della mafia siciliana al massimo del loro più feroce potere militare. Nonostante ciò, egli non ha mai abbandonato la sua funzione per la politica. In un periodo particolarmente ingrato e pericoloso del lavoro d’inquirente, ha accettato un incarico senz’altro prestigioso ma di carattere giuridico. Sono stati i suoi avversari, con l’intenzione di screditarlo, ad attribuirgli il valore d’una scelta di parte.


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