Mauro Rostagno e un’altra idea di società

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“Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto”. È questa, forse, la frase più significativa tra le tante pronunciate da Mauro Rostagno, assassinato dalla mafia esattamente trent’anni fa.
Aveva quarantasei anni, Rostagno, quando la sua vita si concluse a Lenzi, in provincia di Trapani, per via delle sue denunce e delle sue battaglie, del suo essere scomodo non solo per le cosche ma anche per altri poteri occulti potentissimi e per il suo pervicace rifiuto di chinare la testa di fronte a minacce e intimidazioni.
Rostagno, con il suo passato da militante di estrema sinistra, tra i fondatori di Lotta Continua, protagonista della stagione di rivolte studentesche che ebbe inizio all’università di Trento, in un contesto culturale effervescente, con il confronto vivo e costante con professori come Francesco Alberoni, Giorgio Galli e Beniamino Andreatta, quando ancora sembrava che anche i Curcio e le Cagol potessero essere ricondotti in una logica democratica, prima della strage di piazza Fontana, della nascita delle Brgate Rosse e dell’avvio di quel decennio barbaro che furono gli anni Settanta. Rostagno, ai tempi delle opposte fazioni in guerra fra loro, in una sorta di cupio dissolvi generazionale al quale egli si sottrasse unicamente per la sua assoluta contrarietà all’utilizzo della violenza e al ricorso alla lotta armata.
Eppure li conosceva i Sofri e i Bompressi, era immerso nel clima avvelenato che condusse all’omicidio Calabresi, dopo l’abisso della morte di Pinelli e la controinformazione che non esitò a parlare espressamente, e non a torto, di “Strage di Stato”.
Visse prima la stagione delle stragi e poi, in Sicilia, quella delle faide mafiose, disse di essere più trapanese dei trapanesi in quanto la sua era stata una scelta di vita, morì da quelle parti, ancora giovane, al termine di un’esistenza esemplare per passione e intensità.
Rostagno come Pippo Fava e, prima di lui, Mauro Francese e Mauro De Mauro: un “giornalista-giornalista”, per utilizzare un’espressione di Giancarlo Siani, che ci ha lasciato in eredità le sue denunce e il suo straordinario rigore professionale. Se oggi la coscienza anti-mafiosa e la cognizione di questo cancro insopportabile sono più acute, specie fra i giovani, è anche merito suo. Un merito enorme, la sua più grande vittoria: umana e professionale.

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