Giagnoni, Sensi e Bernabéu: tre storie di calcio 

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Addio a Gustavo Giagnoni, al suo indimenticabile colbacco, al suo calcio dal sapore antico e pulito e alla sua concezione dello sport e della vita. Addio, a ottantacinque anni, al tecnico che ebbe il merito di concepire il “tremendismo” granata (geniale definizione di quell’immaginifico che era Giovanni Arpino) che avrebbe poi consentito a Gigi Radice di raccoglierne i frutti e di condurre il Torino al suo ultimo scudetto, presidente Orfeo Pianelli, anno 1976.
Addio a quest’uomo mite e gentile che aveva saputo essere grande sia a Milano che in provincia, seminando ovunque in maniera egregia e lasciando in eredità a chi è venuto dopo di lui un impianto di gioco ma soprattutto una saldezza di princìpi di cui oggi avvertiamo il bisogno e che spesso, specie in alcune realtà, manca quasi del tutto.
Una storia d’amore e di poesia, il ritratto di un tempo che non c’è più, di un calcio che oggi non è più neanche concepibile, di una passione viscerale e autentica che ci scava ancora dentro, restituendoci il senso non solo di un modo di allenare alquanto singolare ma anche di una concezione dei rapporti umani di cui si è quasi persa traccia. Per tutti questi motivi ci mancherà questo piccolo eroe nostrano: non dei due mondi ma sicuramente delle mille panchine, con un livello etico e culturale che molti ipocriti, di oggi e di ieri, fanno persino fatica a immaginare.
Allo stesso modo, a dieci anni dalla scomparsa, ci manca Franco Sensi, anima e cuore della Roma, marchigiano d’origine, romano d’adozione, presidente dell’ultimo scudetto giallorosso, sempre pepato nelle sue dichiarazioni ma verace, appassionato e sincero come quasi nessun protagonista del milionario circo pallonaro sa essere più.
Quanto ci manca un tipo come Sensi in questo mondo invaso da miliardari con la residenza all’altro capo del pianeta, i quali acquistano squadre di calcio come fossero mutande e giocatori come fossero calzini, il tutto per inseguire qualche plusvalenza e accrescere il patrimonio dei propri marchi e delle proprie società, senz’anima, senza cuore, senza quasi mai presentarsi allo stadio e gestendo il giocattolo come un qualcosa di immateriale, di astratto, infischiandosene della storia e della tradizione del club e, anzi, il più delle volte, negandole!
In questo calcio uno come Sensi lo squalificherebbero a vita, subirebbe ogni sorta di ostracismo, come del resto ne subiva già a suo tempo, ma forse riuscirebbe ricordare a troppi tifosi trasformatisi in commercialisti e a troppi dirigenti trasformatisi in meri ragionieri che una squadra e una società significano anche carne, sangue, entusiasmo e che i milioni possono sì acquistare i migliori giocatori sul mercato ma non farli sentire parte di un progetto e di una comunità. E senza questi ingredienti, come dimostrano gli scarsi risultati conseguiti da alcuni sceicchi, l’ambizione è spesso inversamente proporzionale ai successi.
E che dire di Santiago Bernabéu da Almansa, classe 1895, nato in una Spagna povera e rurale, vissuto per quarant’anni all’ombra del regime franchista, scomparso il 2 giugno 1978, esattamente quarant’anni fa, e oggi ricordato come uno dei massimi demiurghi della storia del calcio? Che dire della sua messe di scudetti, delle sue Coppe dei Campioni a ripetizione, ben cinque consecutive, sei in totale, del suo aver trasformato il Real nel miglior club del Ventesimo secolo, del suo aver di fatto contribuito ad inventare quella coppa dalle grandi orecchie di cui, non a caso, i blancos sono egemoni e di quel suo aver forgiato una compagine nella quale hanno giocato quasi tutti i più grandi fuoriclasse di ogni tempo?
Anche Bernabéu, pur dissentendo radicalmente dalle sue idee politiche, ci manca eccome, in quanto avvertiamo il bisogno di quella classe, di quel carisma e di quell’antica saggezza popolare che non riusciamo minimamente a intravedere nei colpi a effetto di Florentino Pérez e nel suo Real galactico ma non ugualmente entusiasmante.
Oggi lo stadio di Madrid, situato nel quartiere Chamartín e inaugurato oltre settant’anni fa, porta il suo nome e speriamo lo porti per sempre. Perché dire Bernabéu e dire calcio sono sinonimi, e ogni volta che vediamo scendere in campo quelle undici magliette bianche ci ricordiamo del perché amiamo tanto questo sport, al netto delle sue degenerazioni.

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