Prove di maturità

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Mezzo milione di ragazzi stanno tribolando da ore sui banchi di una scuola che probabilmente non rivedranno più. Magari fra molti anni ci ritorneranno da genitori facendosi sorprendere da un nodo insperato di nostalgia e memoria, un nodo alla gola che oggi sembra impossibile e che domani sarà inestricabile.
Un nodo di quelli prossimi alla crisi di panico che improvvisamente ti illuminano il passato facendotelo vedere irrimediabilmente perduto.
Il primo giorno è quello uguale per tutti.
La prova di italiano è uno scoglio insormontabile per alcuni, banalissimo per altri ma rimane pur sempre la prima prova, la prima in assoluto, quella che di per se diventa insuperabile e che invece si supera d’ufficio, senza particolari meriti e senza troppi demeriti. Eppure oggi la scelta della traccia non è altro che il trionfo di un ego solitario che cova segreto tra le stanze grigie di un ministero, quello della pubblica istruzione, e che d’un tratto si manifesta in tutto il suo splendore quando il primo caldo di marzo annuncia l’imminente maturità.

Non sarà così ma diventa naturale immaginare questi burocrati intorno ad una tavola rotonda, apparentemente uguali fra loro e profondamente diversi, tutti pronti a sgomitare per l’idea più bella, la traccia più interessante, il tema più complesso.
Eh si, perché in Italia la semplicità non va di moda.
Se scrivi e risulti incomprensibile sei bravo, se poni domande enigmatiche da fare impallidire la sfinge sei sagace, se parli con i doppi sensi sei intelligente, se consegni a mezzo milione di diciottenni temi astrusi e molto lontani dal loro programma scolastico allora sarai un burocrate brillante. Ed è proprio con una rosa straordinaria e complessa di tracce che questi ragazzi si sono trovati a combattere. Facendo un salto di memoria la lettura dei temi è stata sempre un momento topico, quando non conosci bene il primo argomento sei speranzoso nel secondo, quando il secondo ti sfugge cominci a preoccuparti ma sei sicuro che il terzo sarà quello che avevi preparato e tieni nascosto nella cartucciera che nel frattempo ti sta facendo sudare come una lampada ad agosto, poi anche il terzo ti sembra impossibile e allora il quarto diventa l’unica speranza per superare un esame farlocco. Uno di quegli esami dove se vuoi essere bocciato ti devi impegnare, magari alzandoti pubblicamente e professandoti estimatore di Dante, oppure un cultore di Leopardi o magari gridando a squarciagola il nome di Manzoni.
Perché è proprio a loro che si deve tutto, anche la prima delusione scolastica della vita. Loro che sono stati i protagonisti di mesi di studio, loro che hanno rubato luce a pomeriggi assolati, loro che sono stati esaminati come un test di laboratorio e che puntualmente non “escono”. Stanno chiusi dentro un modernismo perverso secondo cui stupire significa risalire la china di una cultura sbiadita, relegata ai più perché non rimanesse ai meno. Non “escono” perché risulterebbero banali eppure in tanti, se uscisse una traccia “banale” potrebbero esprimersi senza arrampicarsi, molti potrebbero soddisfare tutte quelle estenuanti ripetizioni e altrettanti potrebbero dire semplicemente “il tema lo avevo già!”

Poi c’è il secondo giorno, il più difficile perché il più specifico. Greco al liceo classico, matematica allo scientifico, una lingua al linguistico e così via…
Dovrebbe essere il giorno della verità se i professori non si trasformassero sovente in mamme premurose e tenere pronte a passare una versione o il problema pur di rendere facile la vita ai propri alunni.
Ed eccolo il liceo classico come una dama altera e silenziosa pronto ad attendere, forse un po’ vendicativo, il fallimento dell’altrui istruzione sfoderando con sagace eleganza un colpo ferale.
A quei pochi superstiti rimasti, quasi oltraggiati dal futurismo del diretto concorrente scientifico, è toccato tradurre Aristotele.
Ma non è la versione in se che fa la differenza, tradurre altro non è che un esercizio di studio e di memoria, di sacrificio e abnegazione.
Ciò che resterà ai maturandi 2018 del liceo classico sarà il contenuto della versione, lo schiaffo morale e culturale a a questa società che non vede il sociale, al modernismo a tutti i costi, alla ricerca spasmodica della novità a discapito di un passato al quale non si guarda più.

Aristotele parla di amicizia. Quella cosa meravigliosa che lui stesso definisce “necessarissima alla vita”. Con un vocabolario posato sopra un banchetto verde i ragazzi del futuro hanno tradotto l’universalità di un sentimento che spesso viene dimenticato.
In questa epoca senza storia in cui il concetto di amicizia è immediatamente riconducibile a Facebook tradurre il passato riconducendolo al futuro assurge all’unico vero significato che la maturità dovrebbe avere; una lezione di vita, una spinta a quella maturità che forse non raggiungeremo mai ma che tanto ci piacerebbe prendere.
Se dunque il liceo classico fosse davvero una dama ci piacerebbe immaginarla adesso con un sorriso armeno stampato sul volto placido e sereno, un sorriso sornione e forse un po’ beffardo di chi sa, comunque vadano le cose, che alla fine vince a mani basse sopra tutto e sopra tutti senza rumore ma con elegante ironia. E allora viva il liceo classico perché “in etterno dura”

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