Quell’incontro in Curia con Pio La Torre

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di Vincenzo Vasile

Quella prima volta che conobbi “il nuovo Cardinale” , Salvatore Pappalardo, fu nel 1976 a Trapani, per l’alluvione.
Suo padre – apprendemmo quel giorno del suo esordio pubblico con l’omelia per le vittime – era stato il maresciallo di una stazione dei Carabinieri; e lui, l’arcivescovo che era appena diventato capo della Chiesa siciliana, si era laureato alla Pontificia Accademia Ecclesiastica “in utroque iure”, che significa diritto ecclesiastico più diritto civile: già per questo curriculum di “uomo di legge” qualcosa avremmo dovuto prevedere di come si sarebbero messe le cose in tema di legalità, mafia, Chiesa e dintorni.
Le bare arrivarono in Cattedrale quando ancora non c’era gente. Ed erano sei, appena sei, le vittime segnate dalle statistiche prefettizie di quel fiume di fango pietre e acqua che ancora scorreva dal giorno precedente per le vie e le case. Sulle carte topografiche il centro dell’alluvione era segnato come Lago Cepeo; ma a occhio nudo nessuno dalla fine dell’Ottocento per il progressivo interramento si accorgeva più dell’esistenza di quello storico e grande acquitrino che a sua volta, anticamente, alimentava con il reticolo delle antiche senie, tutt’attorno, gli orti sottostanti al monte san Giuliano, sul quale è arroccata l’antica Erice.
E l’alluvione invase il 5 novembre 1976 anzitutto il grande quartiere di case popolari piazzato dalla speculazione edilizia e dagli inquinamenti mafiosi dell’amministrazione proprio sotto alla montagna, con una rete fognaria più simile a una rete di pozzi neri. Dove la natura in origine semmai aveva creato un lago, gli uomini avevano realizzato, invece, una distesa di cemento, arricchimenti, mafia e disastri: e l’acqua riprese il letto di quel lago e trasformò in canali tumultuosi le strade fino al centro. Una delle più disastrate dalla furia del fango si chiamava “via degli Orti”, che non c’erano più ma avevano lasciato il loro nome.
Chi li aveva cancellati gli orti di Trapani? I responsabili politici erano seduti nella prima fila dei banchi, impettiti negli abiti scuri, non sapevano che di lì a poco avrebbero stabilito un primato: sarebbero state loro le autorità per la prima volta schiaffeggiate e accusate pubblicamente per il sacco urbanistico e mafioso di Trapani da un porporato, in Chiesa, e a un funerale.
L’omelia era già iniziata, e la gente con i vestiti infangati, certuni calzando stivali, sulle spalle portava altri “tabuti”, altri dieci, oltre alle sei casse da morto ancora ufficialmente censite. A ogni bara che veniva deposta davanti all’altare, a ogni spostamento degli altri catafalchi e delle corone che si rendeva necessario per far posto agli altri morti, la voce del cardinale saliva di un tono. Fino a raggiungere l’acuto tenorile che sei anni più tardi avremmo riascoltato a proposito di una Palermo che “come Sagunto” muore accerchiata dai nemici mafiosi e dal potere politico inquinato mentre a Roma si chiacchiera a vuoto e per strada si uccide il generale Dalla Chiesa. E quando fu la volta di Falcone, passati quindici anni dal funerale di Trapani, il grido di Salvatore Pappalardo, cardinale arcivescovo capo della chiesa Siciliana, sembrò più sommesso, come rassegnato: “…è lo Stato che dovrebbe proteggere la vita dei suoi uomini, dei suoi servitori, e non l’ha fatto”.
Rileggo la mia cronaca di quella prima sortita di Pappalardo per l’alluvione:
«…Ore 9, Palazzo arcivescovile. «Glielo dico. Lo devo dire. Non si può tacere! »: dice con tono accorato, rivolto al vescovo di Trapani, monsignor Ricceri, l’arcivescovo Salvatore Pappalardo, cardinale, presidente della Conferenza episcopale siciliana, venuto a Trapani per officiare nella cattedrale di San Lorenzo la solenne messa funebre per le vittime del nubifragio. E davanti a un nugolo di giornalisti prende a scrivere con grafia fitta un’orazione funebre che dopo le prime dieci righe, prende il tono di un’indignata requisitoria contro il malgoverno d’un sistema di potere clientelare e corrotto che ha sulla coscienza questi poveri morti. (…) non  dobbiamo   sottrarci però a riguardare alcuni interrogativi, e cioè la mancata attuazione di quelle previdenze   e provvidenze tecniche che avrebbero permesso l’imbrigliamento delle acque, la loro canalizzazioe, la miglior tutela di tanti interessi umani, beni agricoli e urbani. Sappiamo che lavori erano previsti e disposti a seguito   dell’altro, analogo cataclisma (l’alluvione che colpì le stesse zone, provocando 11 vittime, il 2 settembre    1965  n.d.r.)».
«Perché non s’è provveduto? Perché si è dato, ancora una volta il triste esempio di una   inefficienza che ci mortifica e ci preoccupa? È giusto che in questo doloroso momento si riaccenda la fiaccola della solidarietà e si diano assicurazioni che le competenti autorità ed organismi  su vari livelli faranno il  loro  dovere». E subito, quasi gridando: «Ma perché non l’hanno fatto già prima? Se il pericolo era noto, i   progetti elaborati, le somme già stanziate?». Mentre un fitto brusio sale dal  fondo delle navate il cardinale  spiega: «Dio è padrone della nostra vita, ma noi no, e non possiamo per lentezze e inadempienze    variamente imputabili mettere a repentaglio l’esistenza e l’incolumità di tanti cittadini che dobbiamo  considerare e rispettare come fratelli. Ma qui entrano in campo altre considerazioni che riguardano il   sorgere non sempre disciplinato di tanti insediamenti urbani,  la manomissione di una natura che vuole   essere invece rispettata, il mantenimento d’un equilibrio ecologico che rimane la miglior  difesa anche per i   fondamentali interess dell’uomo». E ancora: «Sia questa una  lezione e un richiamo salutare che, se ci umilia e mortifica nel nostro orgoglio e nella nostra presunzione di società progredita, ci  aiuti  anche  a  superare  con decisione ed energia tutto ciò  che paralizza una migliore efficienza, sia politica, sia amministrativa:  l’esempio del Belice è ancora un doloroso monito: bisognerà riguadagnare una fiducia che è stata in gran   parte compromessa».
Ore  12.30. All’uscita dalla chiesa, mentre un lungo corteo di popolo sta per avviarsi dietro ai feretri,   l’imbarazzo e  la stizza di chi è stato posto  sotto accusa in modo tanto esplicito e con toni di cosi inusitata   durezza si legge in alcuni volti, letteralmente sbiancati.  C’è il segretario comunale dc Erasmo Garuccio, che   prende a parte un amico e quasi gli grida: «Non si doveva permettere a quello di fare una cosa simile». Il deputato regionale Salvatore Grillo, già segretario provinciale democristiano negli  anni delle prime alluvioni e dei finanziamenti andati in fumo  —  al suo fianco l’onorevole Aldo Bassi, sindaco negli anni Sessanta —  commenta tra i denti: «Questo non è il discorso che un cardinale dovrebbe fare durante una funzione»…”.
Le novità di quel giorno dell’esordio di Pappalardo sono almeno tre: il fatto che il mio giornale, l’Unità, riportasse il discorso integrale di un cardinale, ai più sconosciuto; il fatto che il nugolo di giornalisti presenti in Cattedrale (soprattutto dei giornali locali) avrebbe poi sottovalutato e quasi nascosto le parole di fuoco del porporato;  il fatto che – in ultimo ma non ultimo –  un prelato di quella  rilevanza rompesse pubblicamente il patto a tre non scritto tra i diversi poteri degli apparati dello stato: la mafia la politica e la Chiesa che governava da decenni gran parte della Sicilia.
Di conseguenza la grande stampa “bucò” anche le reazioni stizzite dei rappresentanti della Dc, gente di cui si sarebbe sentito parlare negli anni avvenire: quelli che cito nell’articolo sono il deputato regionale della corrente di riferimento degli esattori Salvo (non ancora stigmatizzati come mafiosi), ma che, quando fu chiamato a deporre sull’omicidio del fratello Piersanti Mattarella, presidente della Regione, l’attuale capo dello Stato avrebbe indicato per nome e cognome con questo ruolo; un ex sindaco che era chiamato in causa giusto in quei giorni da un’inchiesta del giovane giudice Ciaccio Montalto (di lì a poco trucidato)  sul sacco urbanistico di Trapani, proprio a partire da quel Lago Cepeo che risultava cementificato con variante apposita del piano regolatore ottenuta da un costruttore della lontana Catania, uno dei tre Cavalieri che saranno segnati a dito da Dalla Chiesa prima di essere ucciso; e il segretario dc imbestialito con chi aveva “permesso una cosa simile” era un futuro sindaco che nel 1985 sarebbe stato immortalato da una vignetta di Forattini con la sua didascalia: “a Trapani la mafia non esiste”.  Gli interessati avevano perfettamente capito, insomma, che con quel Cardinale a capo della Chiesa siciliana sarebbe cambiato il vento.
C’è un altro episodio, di molto successivo, che non finì invece sui giornali, di cui fui testimone e che serve a capire la grandezza “politica” del cardinale Pappalardo.
Pio La Torre, nel 1982 nuovamente in Sicilia, riprese e sviluppò alcuni dei movimenti di lotta in verità preesistenti al suo ritorno, che avevano visto la convergenza di cattolici e sinistra, con la presenza delle parrocchie e il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche: la marcia antimafia nel “triangolo della morte” Bagheria-Casteldaccia-Trabia e la mobilitazione contro gli euromissili. Senza precedenti un incontro a porte chiuse in Curia tra La Torre e Pappalardo, due uomini così diversi per formazione e storia personale, dalla quale scaturì l’adesione concreta della Chiesa siciliana alle manifestazioni e alla raccolta di firme contro i missili: l’incontro richeisto da Pio, che non aveva mai conosciuto personalmente il Cardinale, doveva rimanere riservato, io mi adeguai alle volontà degli interessati, e non ne scrissi.
Solo qualche anno dopo, uno dei partecipanti a quell’incontro, padre Francesco Michele Stabile, vicario episcopale di Pappalardo, raccontò pubblicamente ciò che si dissero quei due. La Torre illustrò al prelato con la sua irruenza la sua convinzione netta e profonda: l’installazione missilistica avrebbe riportato la Sicilia a una situazione simile a quella del dopoguerra, quando le trame della guerra fredda, interessi mafiosi e gruppi reazionari, apparati spionistici di potenze straniere avevano portato alla strage di Portella della ginestra. Oltre al pericolo di essere bersaglio di eventuali rappresaglie, la Sicilia correva, dunque, il pericolo di nuovi rigurgiti mafiosi e di un rafforzamento dei poteri criminali. Pappalardo si disse d’accordo con quell’analisi, e senza troppe esitazioni il passaparola fu diffuso tra le parrocchie: in pochi sanno che le centinaia di miglia di firme per la pace furono il frutto di quest’azione combinata sui sagrati delle chiese e per le diffusioni domenicali dell’Unità.
Dopo l’assassinio di La Torre un certo ripiegamento della Chiesa di Pappalardo fu avvertito da diversi osservatori, e non escludo che il messaggio minaccioso del delitto, seguito a cento giorni di distanza dall’assassinio del generale Dalla Chiesa, abbia colpito anche il porporato e i suoi collaboratori.  E quando fu la volta di Falcone, – erano passati quindici anni dal funerale di Trapani – il grido del capo della Chiesa siciliana, mi sembrò più sommesso, come una dolorosa constatazione: “…è lo Stato che dovrebbe proteggere la vita dei suoi uomini, dei suoi servitori, e non l’ha fatto”.

Da mafie


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