Gerardo Chiaromonte: le intuizioni di un riformista 

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Nell’ambito del comunismo italiano, e della corrente migliorista in particolare, non c’è dubbio che Gerardo Chiaromonte, di cui ricorre il venticinquesimo anniversario della scomparsa, abbia svolto una funzione decisiva. Se volessimo fornire una sistematizzazione di questa componente, inizialmente minoritaria e, sul finire dell’esperienza del PCI, maggioritaria, al punto di essere protagonista della Svolta della Bolognina promossa da Achille Occhetto e ispiratrice della stagione successiva, se volessimo apporle un’etichetta, non c’è dubbio che potremmo definirla una classe dirigente profondamente meridionalista. Non a caso, i tre alfieri di quest’area di pensiero sono stati lo stesso Chiaromonte, Napolitano e Macaluso, definiti “miglioristi” da un altro raffinatissimo intellettuale, Salvatore Veca, che così li ribattezzò per via della loro posizione di apertura nei confronti del modello socio-economico capitalista, convinti com’erano di poterlo appunto migliorare dall’interno, nell’ambito della collocazione internazionale dell’Italia che doveva, per forza di cose, attenersi allo schema geo-politico stabilito a Jalta, e per il loro netto e progressivo distacco da quello sovietico, di cui denunciavano, neanche troppo velatamente, l’arretratezza e le contraddizioni.

Dei riformisti, dunque, da decenni vicini ai socialisti e ai socialdemocratici, con i quali di fatto auspicavano addirittura la realizzazione di un unico partito, e lontani anni luce dal movimentismo proprio di un Ingrao e dalle denunce di stampo morale di Berlinguer. Se sul primo elemento costitutivo della propria azione politica potevano avere anche delle buone ragioni, su questo secondo punto, a parer mio, avevano torto, come la storia si è incaricata poi di dimostrare attraverso la vicenda di Tangentopoli e il conseguente crollo dei partiti storici su cui si era imperniata la Repubblica per quarant’anni. La questione morale sollevata da Berlinguer nell’estate dell’81 era, infatti, un punto dirimente del sistema politico italiano, inquinato da poteri più o meno forti e più o meno occulti ma soprattutto pervasivo, invadente, proiettato in sfere e ambiti che non gli competono, feroce nell’accaparramento di posti, poltrone e prebende, privo della credibilità necessaria per chiedere sacrifici al Paese e inevitabilmente destinato a collassare su se stesso, con conseguenze drammatiche per la democrazia.

Lo aveva capito Berlinguer e, prima di lui, lo aveva capito Moro: lo statista democristiano ha pagato con la vita il prezzo delle sue intuizioni, il segretario del PCI con l’irrisione, il progressivo isolamento anche all’interno del suo stesso partito e il conseguente martirio di Padova, giunto per lui quasi come una liberazione dopo sei anni di indicibili sofferenze e strazianti prese d’atto della propria solitudine e del fatto di aver perso l’unica sponda possibile per cercare di rendere la democrazia italiana meno anomala e incompiuta.

Lo avevano capito, in buona parte, anche i miglioristi, non comprendendo tuttavia né ciò che si stava agitando sotto la pelle della società né il suo desiderio collettivo di libertà, emancipazione e progresso, non solo sul piano dell’affrancamento dell’uomo dalla schiavitù del bisogno ma anche da vecchi schemi ormai inservibili, che, non adeguatamente governato, è sfociato inevitabilmente nel liberismo, nell’individualismo e in una sconfitta epocale della politica e delle istituzioni.

Siamo passati, come sosteneva Mino Martinazzoli, ultimo segretario della DC, “dal tutto della politica al niente della politica”, e sul punto specifico conveniva anche Chiaromonte, fautore di una via italiana al socialismo che lo stesso Berlinguer aveva, di fatto sposato, dapprima con la proposta del compromesso storico e poi con lo strappo di Mosca del ’77.

È in questo rapporto conflittuale ma vero, a tratti aspro ma comunque di reciproco rispetto fra i suoi esponenti che emerge la grandezza di quell’esperienza politica, capace di tenere insieme le pulsioni di piazza di un Ingrao con la moderazione di un Amendola, figlio di una cultura squisitamente liberale e disposto a compiere aperture che avrebbero fatto un gran bene ai comunisti italiani, salvo poi commettere dei clamorosi errori di comprensione e di giudizio in merito alla gioventù conrestatrice degli anni Settanta.

Tornando a Chiaromonte, rimangono i suoi scritti, la sua prosa acuta, la sua produzione feconda e alcune sue intuizioni che non solo la classe politica ma l’intera società italiana avrebbe fatto bene ad ascoltare e far proprie.

Rimane, tanto per dirne una, la rivista “Cronache meridionali”, la quale aveva in “Nord e Sud” del repubblicano Francesco Compagna il proprio contraltare, in un duello di idee che era, al tempo stesso, un dibattito politico e culturale di altissimo livello.
Venticinque anni dalla sua prematura morte, a soli sessantotto anni, e un senso di vuoto difficile da colmare, impossibile da dimenticare, amaro nel suo essere diventato la cifra complessiva di una stagione senza più idee, senza confronto, senza conflitto e spesso, ahinoi, anche senza dignità.


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